Il calcio, per i napoletani, non è solo un gioco. Cioè sì, certo: è anche quello. Soprattutto quello. Per carità. Ma negli anni, specialmente dopo la parentesi Maradona, s’è trasformato in altro. Una corsa, una grande avventura; una scalata verso il successo che puntualmente, come nelle migliori saghe, viene interrotta e rimandata all’anno successivo. Vincere lo scudetto, per i napoletani, è politica, sostanza, attivismo sociale. Tifi per il Napoli non perché, banalmente, sei nato tra il Vesuvio e le colline del Vomero; tifi per il Napoli perché c’è un richiamo, dentro di te, ancestrale. È una questione di pelle. No, di più: di sangue. E come succede per San Gennaro, a un certo punto questo sangue si scioglie e inonda ogni cosa.
Il calcio si presta perfettamente con i suoi movimenti e i suoi protagonisti per il cinema (e, non dimentichiamocela, per la televisione). I calciatori sono i nostri eroi, rappresentano la nostra epica; non abbiamo ancora i superuomini e le superdonne della Marvel o della DC. Forse ci arriveremo, forse no. Il punto non è questo. Il punto è che il nostro universo è un universo carnale, fatto di errori, sconfitti e talenti. E Maradona, in questo senso, è l’ideale.
Scrive Emanuela Audisio nella prefazione di Maradona è amico mio di Marco Ciriello, 66thand2nd: “È il racconto di un dolore, di una differenza e non indifferenza, perché non tutti sono Flaubert, e Maradona ha fatto vincere molti e poi ha perso solo lui, ma intanto a forza di inseguire Moby Dick, e quel colpo di pinna mancino, anche noi abbiamo arpionato mari, solitudini, esistenze, e ci siamo confrontati con tutto quello che c’era sopra, sotto, attorno, con quello che credevamo un abisso, per sentirci draghi e poi alla fine solo stanchi”.
Maradona sbarca a Napoli: il segno di una generazione
L’arrivo di Maradona a Napoli ha segnato un’intera generazione; è diventato iconico prima ancora di esserlo, ha dato un megafono a chi, precedentemente, parlava a malapena a bassa voce. È stato un Masaniello imperfetto e riccioluto, un portento di tacco e di mano, quella di Dios. Ha fatto sentire i napoletani – per citare un articolo di Paolo Sorrentino pubblicato su La Repubblica – come Napoleone. Imperatori, conquistatori e – sì –trionfatori. E quindi non è strano ritrovare questa mitologia nel cinema. Non è strano sentire ancora oggi le persone parlare di un tempo vicinissimo come se, invece, fosse relegato alla nascita del mondo e dell’universo.
Lo dicevamo prima: il calcio, con i suoi tocchi, il suo dinamismo e la sua cocente umanità, è perfetto per la messa in scena. E non serve nemmeno rappresentarlo nella sua complessità. Basta, a volte, citarlo. In Scusate il ritardo, un Troisi mugugnante e confuso pensa al Napoli che gioca con il Cesena, che perde – anzi – con il Cesena, mentre dall’altra parte, accanto a lui, c’è la Anna di Giuliana De Sio che parla di crisi di coppia e di problemi.
In È stato la mano di Dio, sempre Sorrentino ha unito, come in una magia, Fellini a Maradona e ha trasformato il calcio – pardon: il Napoli, la squadra – in un’idea da Dolce vita. Citiamo a memoria: in una scena ci sono Fabietto, interpretato da Filippo Scotti, e suo fratello, interpretato da Marlon Joubert, che parlano di certi provini che il dottore, Fellini, ha appena fatto a Napoli per un nuovo film. Marchino, cioè Marlon Joubert, cioè il fratello di Fabietto, racconta di una telefonata avvenuta tra Fellini e un giornalista, in cui, incredibilmente, viene riassunto il significato del cinema.
E allora Sorrentino che fa? Prende quella frase, quell’aforisma ottimo tanto per una lezione accademica quanto per un post su Instagram, e lo ribalta. Mette Maradona nel quotidiano, nella normalità. E dimostra che la realtà, a volte, supera la finzione. Che è meglio, anzi, della finzione. Perché imprevedibile, inafferrabile, straordinaria. Perché, appunto, reale. E dunque eccoci: Maradona diventa l’uomo del destino, il gigante che, in Youth – La giovinezza, palleggia con una pallina da tennis; il totem da omaggiare e da ringraziare, insieme a Martin Scorsese, mentre si ritira un Premio Oscar.
I suoni e i colori di una squadra (e una città)
Maradona, per andare oltre, è un simbolo politico. Asif Kapadia, con il suo bellissimo documentario, lo racconta con una precisione chirurgica. Maradona era arrivato in un momento particolare nella storia di Napoli, la città, e aveva regalato ai napoletani una cosa che, per tanto tempo, sembravano aver dimenticato. L’orgoglio, la consapevolezza. L’appartenenza. Un’idea positiva, e non pessimistica, di sé stessi.
Facciamo, ora, un salto in avanti e arriviamo al Mixed by Erry di Sydney Sibilia (tra parentesi: se l’avete perso al cinema, potete recuperarlo su Netflix; arriverà in streaming il 31 maggio). Una sequenza è ambientata durante i festeggiamenti per lo scudetto, ed è una sequenza che in qualche modo, pensando alla stretta attualità, sembra parlarci di oggi. In giro c’è solo felicità. E c’è come un disordine studiato: i colori, i suoni, i passi. Una città intera si riscopre famiglia, e la famiglia, finalmente, oltre le divisioni e le differenze, oltre quel muro di cui parlava Federico Salvatore nelle sue canzoni, torna insieme, si abbraccia ed è contenta.
Il Napoli è una squadra che più di tante altre, per diverse ragioni, si offre meravigliosamente al racconto cinematografico. Pensate anche a quello che, in questi giorni, sta succedendo nel capoluogo campano. Gli addobbi, gli striscioni, Sorrentino – sì, di nuovo lui – che decide di anticipare le riprese del suo nuovo film per poter catturare parte dei festeggiamenti. Perché sì, la sensazione è questa, e la sensazione, per una volta, coincide con la verità: il Napoli campione, vincitore dello scudetto, che non sa più di riscatto. Quei tempi sono finiti.
Lo scudetto, oggi, è il simbolo di qualcos’altro: è il simbolo del gioco, del calcio e di una passione. E anche, se possiamo permetterci, di una comunità. È un po’ come quella battuta che dice Marcello Mastroianni in Una giornata particolare di Ettore Scola: si può piangere da soli, ma per ridere bisogna essere almeno in due. Ecco. Si può perdere da soli, ma per vincere bisogna essere una città.
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