Il podcast è probabilmente il mezzo di comunicazione più efficace per comunicare e diffondere informazioni nel nuovo millennio. A partire dalla divulgazione scientifica, passando per la cronaca nera e per l’intrattenimento, sempre più voci si raccontano tramite questo nuovo medium, fruibile ovunque, (spesso) in maniera anche passiva. Quella di Tintoria, però, è tutta un’altra storia.
181 puntate registrate in cinque anni e mezzo di attività. Un ospite a settimana per cento minuti di durata media (750 volte tanto la soglia di attenzione della Gen Z). Eppure, 114.000 iscritti e quasi un milione di visualizzazioni per gli episodi più apprezzati su YouTube e un posto fisso nella classifica top30 dei podcast più ascoltati su Spotify. Numeri incredibili per un progetto home-made, nato dalla lungimiranza di un aspirante comico e iniziato per caso, chiamando ospiti a parlare nel salotto di casa sua. E quella dimensione familiare – quasi casalinga -, che “è l’intento del progetto”, Tintoria la conserva tutt’ora, e ne fa il suo punto cardine.
Ogni settimana, Daniele Tinti e Stefano Rapone registrano le puntate del podcast davanti ad un centinaio di spettatori (paganti) in una location particolare, lo Snodo Mandrione, nel quartiere Tuscolano, a Roma. Svariati km lontano dal centro città e dai luoghi dalla movida. Una zona non particolarmente frequentata che, però, in quell’incontro settimanale si fa luogo di ritrovo e di conoscenza. Delle circa centocinquanta persone del pubblico, nessuno ferma i due host per chiedere foto, audio o video di saluti a amici o parenti. Tutto nasce dal fatto che “non deve mai diventare un’intervista […] ma neanche una seduta psicanalitica” spiegano i due conduttori. “Tintoria si fonda sulla libertà – quasi amichevole – che si crea (praticamente) in ogni puntata tra pubblico, conduttori e ospiti”.
Nonostante l’aura casalinga, però, una parte di preparazione prima delle riprese c’è, ed è fondamentale.
I due comici, appena terminata l’intervista con THR, salutano e si defilano, giusto qualche metro più in là (rispetto ai tavoli su cui mangiano, bevono e si conoscono i futuri spettatori). “Ci andiamo un attimo a consultare prima della puntata”, si giustificano. Pochi minuti dopo, fa il suo ingresso nel locale Paola Minaccioni (guest della 181esima puntata), e il duo Tinti-Rapone si va a presentare, per la prima volta, di persona. “Spesso ci conosciamo da prima, altre volte ci incontriamo cinque minuti prima di salire sul palco. Ma forse così nascono le puntate migliori”.
E in effetti, va proprio così.
Come è nata l’idea di creare un podcast prima ancora che diventasse di tendenza?
Tinti: Tanti anni fa guardavo tantissimi podcast, soprattutto americani. Così mi sono chiesto “perché qui non lo fa nessuno?”. Per ovviare a quella che mi sembrava una mancanza ho deciso di cominciare io, invitando nella mia cucina amici e colleghi, principalmente romani. Stefano all’inizio era presente, ma più che altro come spettatore unico delle mie chiacchierate.
Rapone: È vero. Ero un autore-ombra non citato (ride, ndr).
Tintoria è stato un apripista dei podcast comici, quantomeno a livello nazionale.
T: Sì, sicuramente è stato un antesignano a livello di idee. I podcast con gli ospiti, in Italia, non si facevano per niente. Ma a livello di numeri, non mi sento di definirlo un apripista. Era più un fenomeno di nicchia, solo tra noi comici della stand-up. Ora, ciò che ci differenzia, forse, è che siamo gli unici a fare questo genere dal vivo.
Quando avete iniziato, avevate messo in conto la possibilità di avere successo?
T: Ho cominciato perché mi piaceva, volevo sperimentarmi in queste vesti e sapevo che, stando così indietro a livello nazionale, prima o poi sarebbe arrivato l’exploit.
R: Ci è successa la stessa cosa che ci è successa con la stand-up. Lo facevamo perché ci piaceva, poi per fortuna le cose sono iniziate ad andare bene sotto entrambi i fronti. Però, da parte nostra, non c’è mai stata una grande speranza di avere successo.
Il target degli ospiti è cambiato man mano. Prima erano solo personaggi amici, poi si è allargato sempre più il range degli invitati e anche del pubblico.
R: Sì, è stato qualcosa di progressivo. Ceccherini, ad esempio, l’avevo conosciuto perché mi aveva contattato per un progetto. Lo stesso è successo con Maccio. Si è creato un network a cascata, che ci ha permesso di uscire dalla nicchia delle nostre conoscenze della stand-up, quando ogni nostro amico\ospite passava almeno due volte per il podcast. È bello avere a che fare con persone diverse per età, esperienza e percorsi.
T: Soprattutto, è bello pensare di essere arrivati a un punto in cui possiamo permetterci di chiamare personaggi con tanto alle spalle. Prima magari ci sembravano irraggiungibili.
Ritorna il nome di Ceccherini (presente nella 136a puntata). Tempo fa l’avevate definito il vostro ospite preferito. È ancora così?
T, R: Sì, non è cambiato. La puntata di cui siamo più soddisfatti rimane sempre quella con lui.
Nella sua puntata toccate tantissimi temi seri e importanti, dalle dipendenze alla perdizione. L’ironia può essere politica?
R: Se ce l’hai dentro di te e lo vuoi esternare, sì, assolutamente. Però, spesso stand-up e satira vengono equiparate, invece sono due cose diverse. Gli stand-up comedian americani fanno cose totalmente slegate dalla politica. Se tutti avessero un’esigenza satirica, politica o impegnata, ovviamente sarebbe meglio. Ma se non hai niente da comunicare sotto quel punto di vista, non c’è l’obbligo di dire per forza qualcosa, anzi.
E chi sono i punti di riferimento per la vostra ironia?
R: Senza pensarci, Stewart Lee, Steven Wright e Emo Philips, i miei eroi.
T: I miei capisaldi sono Louis C.K e Norm McDonald.
C’è ancora un denominatore comune tra i vostri invitati?
R: Cerchiamo di chiamare ospiti con cui non andare in conflitto, per creare una situazione di convivialità. Non vogliamo qualcuno con cui sappiamo che ci andremmo inevitabilmente a scontrare. Almeno per ora.
Verrebbe da pensare che i tagli non siano contemplati in questo genere di contenuti. Ma è davvero così o succede di dover rimuovere qualcosa?
T: A livello generale, teniamo tutto. Ma se serve tagliare, se l’ospite dice qualcosa che non vuole rendere pubblico o di cui si pente, tagliamo senza problemi. Non abbiamo un’etica vera e propria per cui decidiamo di non tagliare niente a priori.
R: Quella del taglio è solo un’attenzione, una tutela per l’ospite. Certo è che non ci interessa il taglio scandalistico, creato ad hoc per dare adito a polemiche o gossip.
Spesso, però, sui social, le vostre puntate vengono rese brevi video, in cui alcune frasi vengono estrapolate dal loro contesto. Vi spaventa essere fraintesi?
T: Se sui social prendono e fanno i macellai con i nostri video, non è nostra responsabilità. Lo facessero e in bocca al lupo a tutti (ride, ndr).
Vi sentite un po’ parte di una scena indie comedy romana?
T: Non so se è definibile indie, ma forse sì, facciamo parte di una scena romana. Fino a prima del Covid ci conoscevamo veramente tutti. Ora, da dopo la pandemia, gli aspiranti comici sono aumentati. Ed è un gran bene, perché è aumentato anche il pubblico. Se non si può parlare di una scena, allora è un movimento.
R: Secondo me, invece, no. Non c’è una scena vera e propria, Più che altro, ci conosciamo tutti. È più un riconoscersi, sapere chi siamo, conoscere quello che facciamo.
Tanti conduttori vedono il podcast un po’ come una seduta psicanalitica, volta a favorire un flusso di coscienza. Voi come lo percepite?
R: No, per me non lo è affatto. Io lo vedo come qualcosa di più simile a questo che stiamo facendo ora. Noi seduti qui, su un tavolino a chiacchierare, con una birra davanti.
T: Cerchiamo di mettere l’ospite a proprio agio e spesso vengono fuori cose personali, ma non la definirei né una seduta dallo psicologo né un flusso di coscienza. Per quanto diciamo che sarà una conversazione, è pur sempre un podcast, c’è della preparazione dietro.
Quali podcast ascoltate in questo periodo?
R: Io sento sempre la rassegna stampa Morning di Francesco Costa. Poi mi piace anche Stories di Cecilia Sala.
T: A me in questo momento piacciono il BSMT di Gianluca Gazzoli e One more time di Luca Casadei. Poi, vabbè, i podcast americani me li sento ogni giorno.
Da qualche puntata avete anche inserito una sigla di Tintoria, che prima non c’era.
R: Sì. Ci hanno scritto dei ragazzi, dei nostri fan, e hanno voluto regalarcela.
T: Ci piace molto. Tutti però mi hanno scritto che sembra che io abbia i capelli. Volevo precisare a chi legge che in realtà è solo il mio cranio storto.
Cosa vi aspettate dal futuro di Tintoria?
T: Agli ospiti piace, alla gente piace. Non so cosa ne sarà nel futuro. Per ora continuiamo.
R: Infatti, ora, intanto arriviamo a fine anno. Tintoria è qualcosa che ci tiene legati. Vediamo pian piano se cambiare formati, aspetto, persone. È sempre stato così, lungo la strada abbiamo cambiato in base alle nostre esigenze.
Ciò che è rimasto sempre però è una dimensione familiare, amichevole.
R: Assolutamente sì! È qualcosa che è rimasto perché vogliamo che lo spirito rimanga sempre quello.
T: L’abbiamo mantenuta volutamente, sia con gli ospiti che col pubblico. Non deve mai diventare qualcosa di simile ad un’intervista, è sempre una chiacchiera tra conoscenti.
È un buon momento per la comicità italiana?
R: Sì, certo. In alcuni momenti mi sembra che la nuova scena comica sia anche più promettente di quella musicale.
T: Anche secondo me. Stiamo vivendo un gran bel periodo.
E c’è qualcuno della nuova leva che reputate promettente?
T: Penso subito a Salvo di Paola, ma anche a Monir Ghassem.
R: Anche Marco Ceccotti, che in realtà penso sia anche più grande di noi, ma è molto bravo. Stava in un gruppo comico che si chiamava il Nano Egidio e riadattava le favole per bambini con le marionette al teatro del Pincio. Le rivisitava in maniera anche offensiva, con dei riferimenti che i bambini stessi non potevano capire. Comunque, sento che stiamo finalmente vivendo un periodo molto confortante per il nostro settore.
Chi è l’ospite che vi auspicate di avere prima o poi?
R: Il mio sogno è Luttazzi, colui che ha portato la stand up comedy in Italia. Però mi sa che mi devo mettere l’anima in pace.
T: Per me Francesco Totti. Ma mi sembra molto difficile, non ce lo vedo.
R: Dai, magari tra qualche anno, vecchio e stanco. Chi lo sa. Forse, però, è più probabile il mio.
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