Copertina tutta sui toni dell’azzurro ospedale. Una ragazza adagiata sulla poltrona del dentista. Nella sua bocca ferri e attrezzi chirurgici. Addosso una maglia con la faccia di Calcutta. Su uno dei macchinari, piccolo, in rosa, il titolo Relax, “perché sulla poltrona del dentista teoricamente ci si potrebbe rilassare, ma poi quasi sempre sono dolori”.
Dopo cinque lunghissimi anni, Calcutta è tornato. Il suo terzo lavoro in studio – figlio di un periodo di silenzio spezzato solo da qualche featuring (Laurea ad honorem con Marracash o Blue Jeans con Franco126) e qualche pezzo come autore per terzi (l’ultimo, Mare di guai per Ariete) – uscito il 20 ottobre, non è un album veloce e immediato, di quelli che arrivano subito. Ha bisogno di più ascolti per essere capito. E forse anche per essere apprezzato.
Preannunciato in fretta e furia, con un’esibizione intima e singolare a Villa Medici (cui pochissimi fortunati hanno potuto assistere, spiando uno showcase da una porta con su inciso il titolo dell’album). Poi, le lenzuola con la cover del cd appese sulla darsena a Milano e i testi dei brani svelati in versione asmr, tramite dei video sussurrati. L’album è il terzo di un trittico simbolico, come a raffigurare una genesi Mainstream, un proseguimento Evergreen e poi un ulteriore upgrade Relax.
Calcutta (al secolo Edoardo D’Erme) è più sfuggente che mai. Non soddisfa le attese, ma le stravolge e le riassembla a modo suo. Lo fa con un lavoro ben collocato nello spazio ma perfettamente fuori tempo, con una netta distinzione tra lato a (le hit più immediate) e lato b (i brani da riascoltare più e più volte con calma) tipica degli anni Settanta da cui – innegabilmente – si è ispirato. Spazia dal groove al maliconico, passando per le sonorità del Battisti di Una giornata uggiosa, fino alle cantilenanze indie, riadattate e rinnovate, ma pur sempre – in parte – confacenti a ciò che tutti si aspettavano da lui, considerato tra i padri fondatori del genere.
Relax canzone per canzone
Si inizia con il pezzo (forse) più inaspettato, Coro. Suoni che rimandano chiaramente ai canti alpini a spiazzare l’ascoltatore che dopo più di cinque anni attende fremente nuovi ritornelli cantabili e radiofonici. Esordisce così: “Se non esistessero i soldi, noi due dove saremmo? Non si farebbe Sanremo, forse è anche meglio così“, con una (forse neanche troppo) ironica critica alla kermesse più famosa d’Italia (alla quale D’Erme proprio quest’anno ha partecipato come autore per la collega di etichetta Ariete).
Arriva poi Giro con te, la hit più nostalgica dell’album, con un ritmo ben scandito che fluttua tra sonorità vintage e chill. “Io volevo solo un giro con te, prima dell’apocalisse, che tutto finisse per oltre il limite”. Poi il groove di Controtempo, sempre dai colori anni Settanta, in un crescendo di orecchiabilità. Coretti, chitarre dalle tonalità funky che ricordano qualcuno dei lavori passati di Edoardo, prima tra tutte, Sorriso (Milano Dateo). Autogrill, tutti che parlano toscano, lui che “non ero mai finito a letto con una di destra”. La classica simbologia di Calcutta, ricca di immagini vivide e fotografie, in questo caso cariche di una sensazione indefinibile e irraccontabile, a tal punto “che solo il mare lo sa”.
Radiofonia in stile Calcutta
Pur non facendo uscire nessun singolo ad anticipare l’album, Edoardo lo sapeva che 2minuti sarebbe diventata la hit. È la più radiofonica e la più in stile Calcutta, proprio come tutti ce l’aspettavamo. Una scrittura poetica e ben chiara che ricorda Cremonini, destinata ad adattarsi anche alla ricerca di immediatezza degli utenti di Instagram e Tik Tok e a non scollarsi dalla testa. Non senza una componente di malinconia e incertezza. Perché sì, “come un lampo sopra la città ti ho vista in un angolo nel traffico”, ma “magari non eri neanche te”. 2minuti è il brano più tangibile tra tutti, ma stupisce con una svolta synth verso la fine, che accelera tutta la melodia e culmina in un applauso collettivo.
La prima parte dell’album si distacca dalla seconda con Tutti, che separa le strofe più ritmate da quelle più riflessive e malinconiche. Sembra l’inno di una generazione senza certezze “Che sembriamo tutti falliti, tutti impauriti, tutti esauriti”. Calcutta finge di tenersi fuori dalla politica: “Fuori la rivoluzione, e io mi vesto di bianco”, ma poi ne prende parte nello stesso pezzo, caricando di immagini il suo impegno sociale come “Forse i leghisti lì in riva al Po non hanno più un capobranco”, ma anche l’evidente riferimento al Jova Beach Party: “Non giocare col mio cuore, che poi devasto una spiaggia, che ci organizzo un bel festival e poi mi lavo la faccia”.
La synth ballad in SSD
Il tempo di spezzare, con Intermezzo 3, secondogenito dopo il numero 2 di Mainstream. Botte di suoni elettronici e glitch che lentamente e senza intoppi introducono a SSD, la ballad synth più toccante di tutto l’album, che si apre con il rumore di alcuni treni campionati. “Le memorie SSD” che si trasformano linguisticamente e diventano l’LSD grazie a cui Edoardo riesce a parlare con la madre venuta a mancare di recente. SSD è un brano che parla di ricerca. Di suoni e di un relax che, avvicinandosi alla fine dell’Lp, sembra sempre più inarrivabile e fittizio, forse “perché non è qui”, come dice a fine canzone.
Un nuovo sotto capitolo – un po’ meno forte e incisivo dei precedenti – e una tendenza diversa prendono il via con Loneliness. Sonorità disco music alla Bee Gees, rivisitate in chiave pop alla Dua Lipa e arricchite però da sperimentazioni azzeccate e intuizioni originali, come i flauti campionati alla fine.
Un Gino Paoli lisergico
E va ancora più sul semplice con Ghiaccioli, dalle immagini forti e immediate sin dal titolo. Storia – ancora una volta – di un amore ormai concluso, che porta con sé nostalgia, reminiscenze e mancanze. Un’iconografia, quella di Relax, che man mano si fa sempre più basilare ed ha il suo culmine con le “Ore dodici, cielo blu” di Preoccuparmi, una canzone dalle sonorità cantilenanti e anni Sessanta, che ricordano gli Equipe 84 o il primo Gino Paoli, psichedelizzati in un crescendo di tensione finale cantato da un coro.
Quello che – a tratti – potrebbe essere definito un concept album, basato su un relax che dall’inizio alla fine sembra dare sempre più spazio a riflessività, malinconia e paura del futuro, si chiude con l’ossimoro per eccellenza. Allegria è l’interlocutrice che “Mi togli il sorriso, ma mi lasci i denti. Allontanandoti, svuoti ogni gesto e lo lasci a metà. Ma come si fa? Allegria”. Il terzo figlio di D’Erme si spegne con un sax inaspettato, delle tastiere che monopolizzano l’ultima parte del brano e un’incisione sintetizzata, a chiudere in bellezza tutte le sperimentazioni senza paura.
Relax: un disco paradosso
Relax, insomma, è un paradosso: piuttosto che esortare l’ascoltatore a rilassarsi, sembra dirgli di accettare pedissequamente i dolori della vita, vivendo la sofferenza così come si fa sulla poltrona di un dentista. Sapersi rilassare davanti alle aspettative del mercato, dei fan, della stampa nei suoi confronti. E Calcutta lo fa così. Manifesta la sua libertà, il suo relax, tirando fuori qualcosa da un lato inaspettato e spiazzante, ma dall’altro perfettamente confacente alle quelle aspettative nei suoi confronti, in un lavoro ancor più maturo dei precedenti, e forse finalmente, in grado di sdoganare davvero il mainstream dal quale, qualche anno fa, si discostava.
Il padre della musica indipendente riesce in un’impresa che forse di indie ne ha poco, ma sicuramente ha tanto – più che mai – di Calcutta. E dopo cinque anni di assenza, forse, era l’unica cosa di cui sentivamo davvero il bisogno.
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