Gli occhi magnetici e malinconici, i capelli spettinati, il sorriso sornione, la voce profonda e lo stile estroso ma un po’ vecchio stampo, Lorenzo Zurzolo ha i tratti e l’eleganza (e il talento) necessari per chi decide di intraprendere la sua professione. Avvezzo al piccolo e al grande schermo sin da piccolo – quando a soli 7 anni ha esordito in uno spot con Francesco Totti – l’artista, classe 2000, è uno dei volti più riconosciuti e amati dai suoi coetanei. E non solo, ormai.
Dopo i grandi successi di Baby e Prisma, due delle serie che hanno contribuito a forgiare lo sguardo di una generazione sempre più aperta e svincolata da confini di linguaggio, ha preso parte a EO, opera di Jerzy Skolimovski, premio della Giuria a Cannes 2022 e candidato al miglior film straniero agli Oscar 2023. E poi ancora parti in progetti destinati a un pubblico sempre più variegato, come Morrison, Sotto il sole di Amalfi e Diabolik – Chi sei?.
Fino ad arrivare alla serie La storia di Francesca Archibugi prodotta da Picomedia (in onda su Rai1 in 4 prime serate, 8, 15, 22 e 29 gennaio), in cui l’attore romano è Carlo Vivaldi, uno studente ebreo di Mantova. Anarchico non violento, il ventenne, è riuscito a scappare dalla deportazione che ha catturato gran parte della sua famiglia, e grazie all’incontro con Nino (Francesco Zenga) si convincerà a diventare un militante partigiano attivo. Il conflitto cui prende parte genererà in lui una perenne sensazione di solitudine e di interrogativi personali senza risposta. Condannato, suo malgrado, ad un’immobilità storica sfiancante, che Zurzolo è riuscito a impersonare con la delicatezza e la riverenza di chi mette le mani su un mostro sacro della letteratura e lo tratta con rispetto (e giustamente, anche un po’ di paura).
Aveva letto La storia già da prima di essere scritturato? Qual è il suo rapporto con questo romanzo?
In realtà no, non l’avevo mai letto. Mi sono avvicinato al romanzo prima del provino, per prepararmi alla parte. Quando l’ho letto, mi ha emozionato tantissimo da subito, è veramente un libro stupendo. Poi per completezza ho visto anche La storia di Comencini (film del 1986 basato sul romanzo, con protagonista Claudia Cardinale), e mi sono appassionato molto ad entrambe le rappresentazioni di queste vicende così reali.
Francesca Archibugi ha descritto i vostri personaggi come inermi davanti all’orrore della storia. Com’è stato mettere in atto l’immobilità del suo ruolo?
È stata un’esperienza particolare. Tutti i personaggi sono vittime dei fatti storici in cui si trovano coinvolti. Il mio personaggio, in mezzo a quest’immobilità generale, forse, è l’unico che riesce un po’ ad evolversi. È un anarchico non violento: in un primo momento rifiuta fermamente di prendere parte al conflitto, ma quando deportano la sua famiglia e lui riesce a scamparsela, decide di unirsi alla lotta partigiana.
Sarà proprio la partecipazione attiva alla guerra, in un certo senso, l’elemento in grado di farlo evolvere.
Esatto, anche se non saprei dire se in positivo o in negativo. Prendere parte al conflitto significa uccidere. E quando Carlo si ritrova a commettere un omicidio nasce in lui un conflitto interiore. La guerra smuove qualcosa dentro la sua persona, lo traina verso una grande sofferenza, unica possibilità di reazione a questa storia orrenda.
Carlo è un personaggio suo coetaneo, ma estremamente distante a livello di vissuto personale.
Il mestiere dell’attore consente di rappresentare epoche che non hai vissuto personalmente. E questa epoca per la storia italiana è estremamente importante. È stato sicuramente molto difficile: Carlo è un ragazzo della mia età, ma un ventenne degli anni Quaranta non ha punti in comune con un ventenne di adesso.
Come è riuscito ad impersonare un ruolo così distante da lei?
Ho cercato di recuperare delle emozioni dai racconti dei miei nonni. Loro la guerra l’hanno vissuta, e ricordo ancora delle storie che mi raccontava mia nonna che mi sembravano inimmaginabili. Come attore, mi sono accostato con tutta l’umiltà del mondo a questo capolavoro, cercando di essere il più fedele possibile alle intenzioni di Elsa Morante.
Perché è necessario mettere ancora in scena questo romanzo, anche a 50 anni dalla sua pubblicazione?
Credo che oggi sia fondamentale mantenere viva la memoria, soprattutto per i nostri coetanei e ancor di più per i più piccoli. Spero che questa serie possa indurre i ragazzi più giovani a fare altrettanto. A capire quanto è importante ricordare, a non scordarci quello che è successo, a stare attenti che non succeda qualcosa di analogo.
Quale pensa che sia il punto di forza di questa serie?
Ce ne sono tanti. Prima tra tutti, Francesca Archibugi. Lavorare con lei è stato veramente un onore. È una regista fantastica, conosce le direttive giuste da dare, ed essendo anche una sceneggiatrice, pure nelle indicazioni, sa sempre usare le parole giuste. È stato facile farsi dirigere da lei. Penso poi a Luca Bigazzi alla fotografia, ma anche al resto della troupe. A Jasmine, che è veramente un’attrice fantastica, a Elio Germano, a Valerio Mastandrea.
La sceneggiatura, poi, è un altro grande punto di forza. Partendo da un capolavoro, Francesco Piccolo e la stessa Archibugi sono riusciti a rendere giustizia anche ad un romanzo considerato intoccabile.
Crede che, seppur con un’accezione diversa rispetto a quella originale, esista ancora un concetto forte di resistenza nelle nuove generazioni?
Credo di no, non esiste più il concetto di resistenza comunitaria. Penso anche, però, che in generale, nei momenti di difficoltà siamo tutti più propensi ad essere solidali l’uno con l’altro. Ricordo il periodo del Covid, in cui di colpo, da un giorno all’altro, tutti eravamo uniti, pronti a superare quella situazione così strana insieme. Ci ha unito la guerra, così come la pandemia: ora sarebbe bello se questa solidarietà e questa resistenza ci fossero sempre, non solo nei momenti più drammatici.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma