Ted Lasso è una serie sul calcio, ma non parla di calcio. Eppure di partite e di tiri in porta se ne sono visti tanti. Ted Lasso non è nemmeno uno show su Ted Lasso, allenatore di football che dall’America è stato chiamato a preparare una squadra di calcio inglese. Non lo è mai stato.
Ce ne siamo resi conto nel corso delle tre stagioni e lo ha confermato il personaggio stesso. “Non si è mai trattato di me”, scrive come appunto sulla bozza del libro di Trent Crimm, ex giornalista sportivo del The Independent, che per la terza e ultima stagione ha seguito coach e giocatori sul campo e negli spogliatoi.
E, infatti, Ted Lasso ha riguardato fin dal principio noi stessi, facendoci soffermare sul valore di una scrittura seriale che, partendo dal 2020 quando lo show è arrivato su AppleTV+, è mutata in continuazione di puntata in puntata, tramutando sempre di più la commedia in lacrime e commozione.
Un mondo a misura di Richmond
Una riflessione che si è sdoppiata partendo dalla struttura narrativa e andata poi a concentrarsi su come noi stessi, spettatori e esseri umani, potessimo imparare una lezione fondamentale: chiunque può riuscire a trasformarsi nella versione migliore di se stesso.
Lo show ideato da Bill Lawrence e Jason Sudeikis, quest’ultimo anche nel ruolo del protagonista baffuto, lo ha dimostrato. Facendo percorrere una strada di crescita a tutti i suoi personaggi, ma agendo anche su un pubblico che a quella gentilezza infinita e alla bontà intrinseca, quasi irreale, ci ha voluto credere davvero.
Chiunque, dopo anche una sola visione di Ted Lasso, ha desiderato fare le valigie e trasferirsi nell’utopica quotidianità di Richmond, dove anche le persone peggiori sembrano uscite da un libro delle favole e in cui si respira un’aria tranquilla e famigliare. Tutti hanno sognato che potesse esistere veramente un team di calciatori così educati, premurosi, sensibili, privi di qualsivoglia maschilismo tossico. Aperti all’inclusività in un club prettamente machista e che non hanno paura di piangere, magari di fronte a un bel film di Nora Ephron.
Se l’idilliaca realtà di Ted Lasso rappresenta l’idealizzazione di un mondo che di norma è difficile da trovare, da sempre la serie ha fatto sì che negli spettatori fermentasse l’obiettivo di convertire quell’affabilità e quel garbo in qualcosa di autentico. Renderli lo scopo da raggiungere nella vita.
Il voler prendere dall’entusiasmo e dallo spirito di Ted. Dalla sua profonda fragilità, che lui stesso ha saputo infine accettare, al costo di togliersi momentaneamente il sorriso – come dimostra l’aver mandando più volte a quel paese la propria madre nella struggente sequenza della penultima puntata della terza stagione.
Il saper accettare di essere fallibili, di poter soffrire di attacchi di panico, mettendo la salute mentale (degli sportivi nello specifico, delle persone in generale) davanti alla necessità di essere per forza performativi, biasimando le proprie insicurezze e quelle degli altri. Non giudicare mai, soprattutto “dalle azioni che si commettono nei momenti di debolezza”.
L’asso nella manica di Ted Lasso
Osservare fenomeni come Ted Lasso dà la speranza di immaginare che un mucchio di spettatori possano non solo fermarsi alla superficie della serie – che, in ogni caso, vorrebbe comunque dire saper godere della miglior comedy degli ultimi anni – ma apprenderne i consigli e renderli parte della propria esistenza. Stamparsi i moniti del coach Lasso a caratteri cubitali e seguirli come dei mantra cercando di dare sempre il massimo.
Mantenerli con sé, come quei pezzettini di carta che i giocatori hanno tenuto dopo aver strappato il cartellone giallo con la scritta blu scuro appeso sulla parete dello spogliatoio su cui c’è scritto “Believe”. L’asso nella manica dell’allenatore.
Credere. Lui lo ha fatto e ci ha concesso di pensare di poter essere migliori anche a noi. E, così, è il momento di salutare. Perché “there is no place like home”. Ma anche “nessun posto è bello come l’AFC Richmond”.
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