La cosa incredibile è che sia entrata in classifica, anche in Italia. Fortunatamente uscendone. Presto e con disonore. Ma ci siamo cascati anche qui: la serie Netflix sulla gestazione per altri, dal crudo titolo “Madre in affitto” (Madre de Alquiler), ha destato interesse, curiosità, iniziale speranza. Nel cuore dell’incendio sul dibattito delicatissimo sulla maternità surrogata, che con il cambio di governo si è schiantato in picchiata negli abissi dell’incultura. Per poi ribalzare, dai bassifondi del neo oscurantismo da marciapiede al Parlamento, con la proposta di legge Varchi (Fratelli d’Italia), che vuole rendere la GPA “reato universale” (il primo via libera alla Camera è arrivato ieri).
Con Madre de Alquiler speravamo di prendere fiato, come talvolta accade con le serie tv. E magari accedere a un prodotto in contatto con la complessità del tema. Che ci aiutasse a demolire lo stigma che avvilisce le famiglie “non tradizionali”. Che consolasse l’asfissia soffocante tutt’attorno. Quello scirocco insopportabile di conformismo deprimente che distribuisce sentenze e giudizi sulla vita delle persone che scelgono di fare figli in coppie omosessuali o anche eterosessuali con problemi legati alla procreazione. E, però, niente da fare. Non siamo in quel mondo nuovo che ogni tanto la produzione cinematografica regala. Al tasto play delle 24 puntate di questa mini soap si cade in basso e non c’è più scampo.
Puntata dopo puntata la situazione rotola, inciampa, peggiora, precipita. Fa venire voglia di presentare un esposto per scempio culturale. Fa spegnere, riaccendere e poi spegnere e basta, lanciando il telecomando al muro. Niente da ridere, niente da piangere, niente da capire: pollice verso. Improponibile anche solo il pensiero di caricarla in piattaforma. Ingiustificabile il lancio promozionale, l’investimento produttivo in montaggio, doppiaggio, scenografia, scelta dei costumi, scrittura.
Madre de Alquiler: non è secolo scorso, è peggio
Madre de Alquiler non è nemmeno un prodotto da secolo scorso. Perché chi ha visto la soap opera brasiliana anni Novanta da cui trae il soggetto e il nome (Ventre de Alquiler), trasmessa in Spagna da Telecinco trent’anni fa, giura che lì almeno c’era un senso, una trama, una direzione, una provocazione. Qui, invece, siamo oltre il Medioevo. La banalità del male, impacchettata in un prodotto che trasuda pregiudizio, classismo, misoginia, omofobia e moralismo da manuale della razza ariana. Riuscendo in un capolavoro di mediocrità che deprime lo spettatore, lo strattona nelle budella di una trama senza vergogna e disonora una lunga stagione di buona produzione che il comparto produttivo della serie tv latinoamericana non si meritava.
Dimenticate la grande bellezza di prodotti come Ingovernabile o O’ Mecanismo. Dimenticate quella ricerca nella sceneggiatura, nella fotografia, nell’interpretazione. Dimenticate anche la dignità misteriosa delle telenovela di un tempo, sulla tv della cucina, mentre la nonna sbatteva in un bicchiere l’uovo con lo zabaione: Cristal, Santa Barbara, Febbre d’Amore.
Caricatura fuori dimensione
Madre de Alquiler è uno sconvolgente obbrobrio. Che prende un tema controverso e dolente e ne fa una caricatura fuori dimensione. Mescola senza rispetto ingredienti diversi e ne fa indigeribile minestrone. Propone il quadro storto di una famiglia milionaria messicana in cui non avere figli è un disonore. Stringe sulla madre cattiva, a capo di un’azienda farmaceutica leader di settore. Porta negli inferi suo figlio e la moglie, coppia sterile bullizzata e umiliata per le difficoltà di procreazione. Prende poi una piccola famiglia indios: una figlia e un padre.
Parte con un thriller di quart’ordine in cui la “madre in affitto” indigena viene rapita e sottratta al padre e sarà costretta a firmare un contratto come madre surrogata per consentirgli di uscire di prigione. Poi ci butta dentro il tema della disabilità senza grazia né minima protezione.
Farmaci dannosi e madri cattive
L’azienda farmaceutica della famiglia dei protagonisti produce farmaci dannosi per l’embrione, che causano una grave deformazione che colpirà uno dei gemelli protagonisti della contesa e della narrazione. La madre cattiva del padre al centro della scena si occuperà spietatamente di impedire al neonato storpio l’ingresso nella grande famiglia imperiale. Lo “scarto umano” sarà consegnato alla madre in affitto e dichiarato morto in quanto impuro, con tanto di funerale. Le puntate proseguono come scalini melmosi, verso una tremenda palude in cui affoga ogni tentativo di redenzione. La serie, soap opera o quel che è si impicca inesorabilmente con la sua stessa corda. A citare regia, attori, nomi, cose e persone si fa torto a chi è incappato in questo errore di carriera.
“Siamo famiglie. Non siamo resti. #GPAmoreuniversale”, scrivevano ieri l’altro nel loro appello Famiglie Arcobaleno, Gaynet, Associazione Luca Coscioni, Agedo, Circolo Mario Mieli, Arcigay Roma, Rete Lenford e le altre associazioni che in Piazza del Pantheon, a Roma, hanno provato a scandire la loro protesta contro la GPA come reato universale. Senza eludere il dilemma etico che riguarda il mistero di ogni vita che viene al mondo e il corpo delle donne e il suo rischio di mercificazione, anche per rispetto a queste persone e a questa piazza non c’era nessun bisogno che questa serie andasse in produzione e in distribuzione.
La carne viva delle persone
Perché usare la gestazione per altri come cluster marketing per fare cassetta e download e poi rotolare nel fango dello stereotipo, del pregiudizio, della ideologizzazione, agitando paure e razzismi in una disordinata galleria dell’orrore è un’operazione disonesta e senza cuore. Merita una croce sopra, allarga un dispiacere, sgocciola indignazione. Perché questo tema non ammette maschere distorte e caricature. Ha bisogno di ghiaccio contro l’infiammazione. E l’industria culturale non può asfaltare così la carne viva delle persone. Nemmeno per fiction.
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