Per parlare di Masters of the Air basterebbe guardare la sua sigla. La serie è composta da nove puntate, ognuna di una durata compresa tra i quarantacinque minuti e un’ora di visione, ma quella singola parentesi in apertura di ogni episodio – rigorosamente dopo il breve prologo – spiega più della somma del tempo di visione dello show di Apple TV+.
Intanto è lunghissima. Condensa in una manciata di minuti tutto ciò che vedremo accadere nel corso della storia ambientata durante la seconda guerra mondiale. Secondo poi è orchestrata dal compositore della colonna sonora Blake Neely, che non fa minimamente mistero della ripresa di temi e ispirazioni alla John Williams, dando emotività anche solo a quello stralcio di anticipazione che ci introdurrà nel racconto.
Un canovaccio che non avrebbe bisogno di una simile sontuosità, e invece Masters of the Air decide che anche l’entrata nelle sue puntate deve essere epica come il resto di una produzione da 250 milioni di dollari, partita nel 2013 dalla HBO e acquistata nel 2019 dalla piattaforma streaming, che il suo investimento è intenzionata a mostrarlo tutto.
Lo show dei creatori John Shiban e John Orloff è l’ideale capitolo conclusivo della trilogia della guerra aperta nel 2001 con la miniserie Band of Brothers, seguita nel 2010 da The Pacific e che fin dall’inizio ha come perni i colossi Steven Spielberg e Tom Hanks.
La Storia, la sigla, la regia
I quali tornano, Spielberg e Hanks, per la serie di Apple TV+ nel ruolo di produttori esecutivi, come accaduto per il racconto episodico sugli avvenimenti della guerra del Pacifico, in cui già avevano perso il loro status di ideatori assunto per Band of Brothers, rimanendo a supervisionare nelle retrovie (con Hanks nella doppia funzione di voce narrante). E sempre come per le precedenti, anche Masters of the Air basa la stesura dei fatti storici su di un saggio, Masters of the Air: America’s Bomber Boys Who Fought the Air War Against Nazi Germany di Donald L. Miller, pubblicato nel 2007 e incentrato sul 100° gruppo bombardieri dell’aviazione USA, il Bloody Hundredth.
Si parte col 1943, si sorvolano i cieli cercando di rifuggire la morte, che viene sbattuta in faccia dalle atrocità e i pericoli della guerra, che anche lassù, nella calma delle nuvole, è pronta ad attaccare. E un intero gruppo, un cast corale da quanti più personaggi le linee narrative possono sopportare, si divide tra cielo e terra innestando nel racconto battagliero i retroscena e gli inserti personali dei protagonisti, seguendo dal vivo le vite di un intero plotone anche quando scende dai veicoli da aviatore.
Nella pomposità della sigla, dunque, c’è la premessa (e promessa) spielberghiana dei war movie. Dell’apporto hollywoodiano, dei buoni sentimenti che anche questa serie tutta al maschile andrà a tessere tra un duello aereo e un’esercitazione destinata a diventare lezione per scontri futuri. Si sorvolano Francia, Inghilterra, Germania. Si sfidano i nazisti e si cerca di superare i traumi come si può.
Ma è la matrice magniloquente dell’apporto produttivo che alza qualitativamente il discorso sulla serialità e che dimostra, come fatto sporadicamente nel corso degli anni, che anche i prodotti seriali possono avere ambizioni da major. Ed è scioccante come la mano registica di Cary Joji Fukunaga sia plasmata sulla tecnica, anche in questo caso, dello Steven Spielberg/entità superiore, che osserva e vigila. Che, anche quando non c’è, è più presente di ogni altro spettro. Più della Storia stessa.
Masters of the Air, classico e modernità
I volti sono quelli del registro dell’autore degli Studios, non tanto i già noti Barry Keoghan e Austin Butler – sempre bravi, con l’attore di Elvis che continua a scioccare per la dissonanza tra il suo aspetto angelico e la voce baritonale -, quanto Callum Turner (conosciuto, ma non ancora abbastanza, e protagonista nel 2023 anche per George Clooney in The Boys in the Boat) e ancor più il collega Anthony Boyle.
Le relazioni che intrecciano hanno la natura fraterna e indissolubile dei caratteri del suo cinema, che siano tra umani e alieni (E.T.), spie e scontro-spie (Il ponte delle spie) o, per rimanere in tema, commilitoni con commilitoni (Salvate il soldato Ryan).
Ma se il tocco classico di Spielberg è un plusvalore nei suoi film, in mano a Shiban e Orloff appiattisce un po’ il tiro, facendosi surclassare dall’impianto mastodontico di una serialità fuori scala, che tende a perdere quota nel volare dietro a tanti personaggi, soprattutto in relazione a un quadro storico altrettanto stratificato.
Un tradizionalismo che non giova troppo nemmeno all’adattamento di un linguaggio audiovisivo che è giusto tragga a piene mani dai maestri John Ford e Howard Hawks, ma che dovrebbe impostarsi su frequenze moderne. Richiamando gli antecedenti Band of Brothers e The Pacific, cercando però una propria identità, pur nell’ispirazione di chi è venuto prima.
A ogni modo, Masters of the Air è un prodotto esemplare che assottiglia sempre più la distanza tra piccolo e grande schermo. La prova che si può svettare sollevandosi da terra, alzando ogni volta di più l’asticella.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma