I monitor con il tubo catodico, i grossi bottoni premuti a caso e che si illuminano, i suoni assordanti del ponte di comando e le miniature di astronavi che fluttuano nello spazio: l’arrivo della seconda stagione di Spazio 1999 su Rai Play, oggi 21 dicembre, è un tuffo negli anni Settanta, nella fantascienza che ora chiamiamo retrofuturismo. Un fascino quasi teatrale, soprattutto grazie all’antesignano Star Trek di Gene Roddenberry, che i costumi e le scenografie dei pianeti extraterrestri portavano con sé con grande entusiasmo creativo e immaginifico.
Un artigianato oggi ampiamente sostituito dalla computer grafica, che se da un lato ha permesso un accesso più facilitato a certo tipo di produzione, soprattutto quella fantascientifica, dall’altro, il suo abuso trasmette un retrogusto dolceamaro.
È sufficiente mettere a paragone Jurassic World e Jurassic Park: i dinosauri spielberghiani – grazie agli animatronics – appaiono agli spettatori più “veri” rispetto ai loro corrispettivi più contemporanei. E la scena del velociraptor che apre la porta (tipico dei velociraptor), continua a spaventare tuttoggi, come quella del T-Rex che attacca le auto sotto la pioggia.
La questione degli “effettacci”
Questo perché c’era un mix ben riuscito tra effetti visivi, quelli in post-produzione, e gli effetti speciali, quelli pratici. Tornano in mente le parole di Victor Pérez, effettista visivo di Harry Potter e de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan.
“La questione degli “effettacci” è semplice, e l’esempio calza a pennello: com’è possibile che gli effetti visivi dell’ultimo Jurassic World si vedano, mentre non si vedono quelli del film di Steven Spielberg del ’93? La risposta sta in una regola fondamentale: gli effetti dipendono dalla storia. Se la storia non ha un senso logico, l’effetto è straniante,” ha spiegato Pérez in un’intervista a THR Roma.
“Anche se gli spettatori sanno che i draghi non esistono, perché certo non si può ‘assumere’ un drago per quelle scene, se il lavoro è svolto come si deve ed è amalgamato con l’ambiente e con la scena, allora il pubblico ci crede. Ed è un successo”, ha commentato sul tema Jake Morrison, VFX Supervisor di Thor: Love & Thunder, che tra gli esempi di effetti visivi ben realizzati cita film Paddington come esempio di un “lavoro incredibile”.
“So che Paddington non è vero,” aggiunge Morrison, “ma in diverse scene è vivo e interagisce con l’ambiente perfettamente, lì è quando l’effetto visivo è un successo, e non mi interessa se Paddington non è reale, nella scena il pubblico comincia a crederci. E io ci credo”.
Psycon
Il primo episodio della seconda, e anche ultima, stagione di Spazio 1999 – che per l’epoca aveva un elevato budget di produzione, oltre alla coproduzione tra l’emittente britannica ITV e Rai – emana quest’aura di fascino, e ci credi.
Ci credi che l’equipaggio della navicella proveniente dalla colonia lunare Alfa, che nel loro ipotetico 1999 si è staccata dall’orbita terrestre, sia in pericolo. E credi agli orbi di luce che si muovono e inglobano navicelle, alle tecniche registiche usate per la trasfigurazione di Maya (Catherine Schell), la figlia di Mentor, il padrone del pianeta Psycon.
Nel giorno 342 dal distacco dall’orbita, Mentor cerca di assoggettare gli esuli dell’equipaggio del capitano John Koenig (Martin Landau) per ripopolare il suo pianeta, e riportarlo ai fasti di un tempo grazie al computer organico Psyche, in grado di manipolare la materia a livello molecolare, capacità che con il loro corpo hanno gli stessi Psyconiani.
Ci credi perché è una recita, come quando da bambini gli oggetti attorno a te diventavano razzi protonici e comunicatori super tecnologici. E poi gli stessi archetipi della fantascienza anni Settanta, che ormai ha un suo look distintivo, le giacche colorate, la catena di comando, la sigla in pompa magna. La seconda stagione di Spazio 1999, restaurata dal Tecnologico Teche di Torino, ripropone sulla piattaforma di streaming di mamma Rai la prima messa in onda italiana della serie del 1979 (nel Regno Unito trasmessa dal 1976 al 1977).
La stagione è realizzata da Gerry Anderson, già autore della prima stagione insieme a Sylvia Thomas, con il produttore americano Fred Freiberger, che aveva già lavorato alla terza stagione della serie originale di Star Trek.
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