Con The Crowded Room di Akiva Goldsman, l’attore della Marvel Tom Holland ha segnato una svolta nella sua carriera, diventando produttore esecutivo di una serie televisiva e assumendo non solo il ruolo principale, quello di Danny Sullivan – un personaggio ispirato al saggio di Daniel Keyes del 1981 Una stanza piena di gente, che racconta della prima persona dichiarata non colpevole di un crimine a causa di un disturbo dissociativo dell’identità – ma anche quello di ognuno dei suoi “alter ego”, ovvero le sue personalità multiple.
L’attore, nel corso di una sessione Q&A della SAG-AFTRA Foundation moderata da The Hollywood Reporter, ha raccontato di come non sia riuscito a resistere alla straordinaria storia del progetto, del perché abbia chiesto ai dirigenti di Apple TV+ una settimana di pausa durante le riprese e del gruppo di persone a cui si affida per avere pareri sinceri sul suo lavoro.
Come si sente ora che è finito lo sciopero?
Sono stato così fortunato nella mia vita che in realtà, da quando avevo circa 17 anni, ho sempre avuto qualcosa in uscita quando iniziavo un nuovo lavoro. Ora tutto quello che ho girato è uscito, quindi non mi è rimasto nulla. I miei agenti sono seduti dietro le quinte, quindi è meglio che vi mettiate al lavoro (ride, ndr). Ma sono davvero entusiasta per il futuro. Mi sento come se stessi iniziando un nuovo capitolo. The Crowded Room mi sembra il trampolino di lancio perfetto per farlo. Sono nervoso, ma credo che essere nervosi sia sempre una cosa positiva quando si tratta di lavorare nel nostro settore. Bisogna imparare a sentirsi a proprio agio con la vulnerabilità.
Ci riporti all’inizio del 2021, quando ha incontrato il creatore di The Crowded Room, Akiva Goldsman. Com’è andata la conversazione?
Ho conosciuto Akiva per la prima volta alla Soho House, l’incontro era alle 13. Pensavo che sarei andato lì, mi sarei seduto con lui per un paio d’ore e avrei ascoltato quello che aveva da dire. Alla fine me ne sono andato alle 22.00 perché mi ero innamorato. C’era qualcosa in lui che mi ha convinto a raccontare questa storia. Ha parlato molto apertamente del suo passato e ha una connessione personale profonda con la storia. Mi ha anche invogliato dicendo che persone che ho sempre ammirato, James Cameron, David Fincher, Leonardo DiCaprio, hanno tutti cercato di realizzare questo progetto. Mi ha fatto venire voglia di farlo. Poi, mentre giravamo, ho capito benissimo perché nessuno voleva prendersi tale responsabilità: stavo interpretando quattro persone nella stessa scena. Cosa stavo facendo?
Akiva ha raccontato di essere sopravvissuto ad abusi sessuali e ha detto di aver inserito la sua esperienza personale in questa storia. Che impatto ha avuto su di lei?
Era necessario che tutti venissero sul set con un certo livello di rispetto per il materiale, per capire che si trattava di qualcosa di più che mettere in scena un racconto. Questa serie, per me e soprattutto per Akiva, è stata in qualche modo istruttiva. Sono entrato in questo progetto senza sapere quanto possa essere potente la mente umana e le cose folli che arriviamo a fare per proteggerci, nel bene e nel male. Si è trattato di essere molto attenti, di assicurarci di essere il più autentici possibile, di prepararci al meglio facendo ricerche e leggendo la letteratura scientifica, incontrando psicologi e sopravvissuti e parlando con loro delle loro esperienze.
Com’è il suo processo di ricerca?
Sono dislessico e faccio fatica a leggere. Ricordo di aver ordinato il libro Una stanza piena di gente, di Daniel Keyes, e di aver pensato: “Per favore, fa’ che siano al massimo duecento pagine”, invece era un mattone. Mi è arrivato per posta e ho pensato: “Oh cazzo” (ride, ndr). Eppure non riuscivo a metterlo giù. Mi ha catturato fin dall’inizio. Mi sono immerso nel mondo della psicologia e delle cose belle che le persone fanno per proteggersi. Abbiamo parlato con degli psicologi; la nostra supervisora alla sceneggiatura (Jodi Domanic) è lei stessa una psicologa, il che è stato prezioso. Diciamo che abbiamo fatto e letto tutto il possibile per dare vita a questa storia nel modo più autentico possibile.
Come ha funzionato l’imitazione degli altri attori?
Il momento migliore, in cui mi sono sentito più fluido, è stato con Sasha Lane, quando ballava nel club. È così libera e lei ed Elijah Jones erano semplicemente magici. Io stavo fuori campo a guardarla e poi il regista gridava “cambio” e io mi buttavo, e Sasha guardava e mi diceva di fare qualcosa di diverso. Mi diceva: “Guarda, non sto ballando niente del genere. Tom, guardami”. Entrava e ci scambiavamo di posto e poi ne discutevamo. Non credo di aver mai avuto un legame così forte con una collega sul set come quello che si è creato con Sasha quando abbiamo fatto quella scena. È un’assoluta potenza e sono così orgoglioso di ciò che ha fatto nella serie. L’intera sequenza di riprese nel nightclub è stata dura e impegnativa, ma non si è mai lamentata. Era pronta a tutto ed è straordinaria.
Come ha capito quando staccare la spina? E come si sentiva fisicamente, emotivamente e spiritualmente?
Maschero il nervosismo e lo stress facendo battute, è il mio mestiere. Ho un’energia frizzante e sono il tipo di persona che dice: “Sto bene, sto bene, mi riprenderò”. E poi alla fine arrivi a un punto in cui ti ritrovi bloccato. Stavamo arrivando all’ultima parte della serie e stavamo per iniziare le riprese in tribunale. C’è una scena nell’ultimo episodio che mi terrorizzava. Anche l’idea di rifarla ora mi spaventa. È molto intricata. Sapevo solo che volevo dare la massima energia possibile, e il peso della serie, la responsabilità della storia di Akiva, gli impegni stavano diventando troppo. Ho la fortuna di essere in una fase della mia carriera in cui quando chiedo aiuto lo ottengo, e sapevo di averne bisogno.
Ho detto ad Apple che avrebbe fatto bene a me e alla serie se avessero trovato il modo di darmi una settimana di riposo. Mi hanno accontentato e sono stati molto gentili. Non stavo cercando di ritagliarmi una vacanza, avevo davvero bisogno di una pausa. Il mio anno di pausa invece non ha nulla a che fare con la serie, ma con la mia età e la mia crescita. Faccio questo lavoro da quando avevo 11 anni, da allora non ho mai fatto una pausa. Ho avuto una vita intensa ma sono stato molto fortunato. Volevo passare un po’ di tempo in un posto con la mia famiglia e i miei amici, organizzare la mia vita. Ho scoperto di non aver pagato la bolletta dell’acqua per cinque anni, ma solo perché non sapevo che si dovesse fare. Pensavo che in Inghilterra l’acqua fosse gratis.
Le sue scene con Amanda Seyfried sono molto belle. Come avete trovato il ritmo per lavorare insieme?
Innanzitutto, sono stato molto fortunato ad avere Amanda come partner in scena. È stata fantastica e ha portato tanto amore e gioia sul set, che era un luogo piuttosto cupo. È stata una serie difficile ed emotivamente eravamo tutti molto svuotati. Quando è arrivata Amanda, è stata come un raggio di luce, ed è anche un’attrice meravigliosa. Siamo stati in quella stanza per così tanto tempo che avevamo più di 200 pagine di dialogo da fare. Sapevo che per renderlo avvincente avremmo dovuto cercare di tenere il pubblico sulle spine, quindi Amanda era come il mio pubblico in questo senso. Mi esercitavo con lei.
C’è una scena in cui è con Amanda e interpreta Danny, poi improvvisamente passa a Yitzhak, e vediamo la trasformazione in tempo reale. Quante riprese ci sono volute?
Quello che volevo davvero cercare di trasmettere era questo elemento di vuoto, l’idea che il corpo è ancora lì, ma la mente è andata da qualche altra parte. C’è un intervallo di tempo tra il momento in cui Danny se ne va e il momento in cui un alter ego prende il posto. Per me è stato un elemento molto forte, perché ti confonde davvero quando lo vedi per la prima volta. È trasformazione fantastica, perché la gamma emotiva dei due personaggi è diversa. Quindi, per me, si trattava di trovare l’immobilità, di concentrarmi sul fatto che mi sembrava strano. Ho lasciato che i miei occhi si velassero e che Amanda andasse fuori fuoco e rimanessi lì. Stavo spremendo fuori tutto il possibile, ma è stato fantastico. Ne sono davvero orgoglioso.
Quando si fa un progetto come questo, immagino che nella sua vita ci siano persone di cui apprezza l’opinione. A chi si rivolge? Chi è un suo confidente che ascolta e pensa le dica la verità?
Zendaya è probabilmente la più onesta con me, cosa che adoro. Ne ho bisogno. Robert Downey Jr. è molto onesto, a volte un po’ troppo, e io ho visto Doolittle, fratello. Lo adoro, ovviamente, e rispetto molto l’opinione di Downey. Mi ha insegnato così tanto e io canto sempre le sue lodi, lo adoro e lo ammiro. Non so se avete già visto Oppenheimer, ma è assolutamente sbalorditivo. Per me ruba la scena. A Benedict Cumberbatch chiedo spesso consigli sulla recitazione. Ho attraversato una fase in cui facevo davvero molta fatica a piangere – anche nella mia vita privata – e questo mi condizionava sul set. Mi preoccupavo delle scene di pianto, mi preoccupavo moltissimo, così tanto che quasi non riuscivo più a piangere.
C’è quella bellissima scena alla fine di The Imitation Game in cui lui crolla. Ricordo di averla guardata da ragazzino e di esserne rimasto affascinato. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui in Edison – L’uomo che illuminò il mondo e gli ho chiesto: “Come hai fatto? Hai attinto alle tue emozioni personali o c’è una tecnica che usi?”. A dire il vero, era una combinazione di entrambe. La tecnica è una cosa che riesce a fare con il diaframma, quasi come ridere. Probabilmente sto svelando i suoi segreti. Me l’ha mostrata sul set, mentre eravamo a prendere un caffè. Simulava una risata e respirava molto velocemente per portare l’emozione in superficie. Poi prendi quella sensazione e cavalchi l’onda da lì. Cazzo, ho iniziato a farlo e adesso adoro le scene di pianto. Non devo più attingere a esperienze passate o a questioni personali.
Dopo questa esperienza, come vede il suo futuro?
Voglio fare cose che mi spaventano, che mi mettono a disagio. Quando fai quello che facciamo noi, devi essere a tuo agio nell’essere a disagio. Questa serie ne è un esempio perfetto. Ben mi dice sempre che, se non ti impegni, non ti crederanno. Il motivo per cui non mi impegnavo è che avevo paura. Non avevo mai fatto niente del genere prima. Mi ero così abituato alla macchina Marvel e alla rete di sicurezza di Spider-Man, sentendomi protetto. Quindi, fare una cosa del genere è stato incredibilmente spaventoso, ma proprio perché era così spaventoso, è stato così appagante e gratificante. In futuro, se c’è qualcosa che sento di non poter fare, voglio farlo. Interpretare una specie di stupido inglese non è quello che voglio fare, perché quella è la mia vita, no?
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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