C’è il mondo che crediamo di conoscere, e c’è il multiverso delle spie: dove può capitare di scoprire che gli amici di una vita sono agenti, dove la realtà sembra scivolarci tra le mani, in un gioco di specchi in cui niente è quello che sembra, nel quale le certezze – anche quelle dei sentimenti, delle relazioni – finiscono per sgretolarsi tutte. Quando cadde il muro di Berlino, il crocevia sommo della guerra fredda, vennero alla luce decine di storie così: il fedele marito che per due decenni aveva spiato la moglie che lavorava in un ministero della Germania dell’ovest e che, scoperto, sussurrò “ma io l’amavo”, l’amico di una vita conosciuto ad una festa che dopo anni si rivela essere un agente del controspionaggio americano. Ora, il più celebre degli “agenti doppi”, la più straordinaria di tutte “le spie che amavamo” (ossia lo sapevamo che erano spie, ma non sapevamo che spiavano per “l’altra parte”) è Kim Philby, senza ombra di dubbio (in questa storia tutta fatta di ombre e di dubbi): l’uomo dell’MI6 che in realtà era una spia – la principale, la più preziosa – dei sovietici. E non da ieri, bensì da sempre, ossia dal 1932 (per convinzione, peraltro).
Kim Philby: Una spia tra noi
Nel 1963, smascherato dai suoi colleghi al servizio di Sua Maestà, s’imbarcò su una nave-cargo sovietica per comparire, una settimana dopo, a Mosca. Dove venne accolto, non sorprendentemente, come un eroe. Insomma, se si pensa alle parole “agente doppio” (“agente che, fingendo di operare per conto di un’agenzia intelligence, agisce in realtà a favore di un altro servizio di informazione o di un’entità ostile”: questa la definizione del Glossario Intelligence pubblicato per conto della Presidenza del consiglio dei ministri nel 2013), da allora si associa automaticamente al nome di Harold Adrian Russell Philby, detto Kim.
Oggi il nome dell’agente torna alla ribalta grazie una serie in partenza in esclusiva su Sky ed in streaming solo su NOW, Una spia tra noi (A Spy Among Friends: Kim Philby and the Great Betrayal), che va al fondo del cuore della storia dell’agente britannico: ed il cuore è l’amicizia fraterna con Nicholas Elliott, collega del SIS (Secret intelligence service). Quando le voci su una possibile defezione di Philby a favore dei russi cominciarono ad infittirsi, fu lui a volerlo raggiungere a Beirut alla ricerca della verità. Ora, non si sa se Kim fosse già stato avvisato dal suo uomo di contatto all’ambasciata sovietica a Londra: fatto sta che quando si videro nella capitale libanese il 16 gennaio 1963, Philby disse all’amico che quella visita era “in parte attesa”.
Com’è come non è, al secondo incontro Kim non si presentò, per imbarcarsi sul cargo battente bandiera dell’Urss di cui sopra e divenire un eroe sovietico con tutti gli onori.
Da Homeland alla guerra fredda
Va detto che A Spy Among Friends promette bene, stando ai nomi coinvolti: la serie è stata creata ed è diretta da Alex Cary (produttore e sceneggiatore di Homeland, ossia la madre di tutte le spy-series dell’ultima generazione) ed è interpretata da Damian Lewis (anche lui venuto dalle brume di Homeland) nei panni di Nicholas Elliott e Guy Pearce (l’abbiamo visto in Memento di Christopher Nolan) in quelli di Philby. E ancora: Una spia fra noi si fonda sull’omonimo bestseller di un giornalista del Times, Ben Macintyre. Che ha costruito il tutto (il libro e lo script) proprio sull’amicizia tra Elliott e la spia delle spie: “Erano vicini e intimi come possono esserlo due uomini”, racconta Macintyre. “Erano amici da una vita, e al tempo stesso al cuore della loro amicizia c’è questo profondo tradimento, intimo, e lo è stato sin dall’inizio”. In altre parole: paradossalmente, il tradimento diventa la chiave per comprendere la natura di un’amicizia.
Damian Lewis in una scena di Una spia tra noi – Courtesy of Sky
“Considerate che questi due uomini avevano attraversato la guerra insieme, cementando un genere di lealtà molto particolare, che ha garantito a Philby un travestimento quasi impenetrabile”, insiste ancora Mcintyre. “Il fatto è che a persone come Elliott e altri che avevano combattuto al fianco di Philby semplicemente non poteva passare per la testa che l’amico si trovasse d’improvviso dall’altra parte. E nonostante tutto questo Philby ha continuato a credere che la loro amicizia potesse sopravvivere a tutto ciò”.
Per tentare di capire il mistero Philby, bisogna scavare nella sua storia personale. Ed è un romanzo la vita di Harold Adrian Russell Philby: nato in India – suo padre era un diplomatico ed esploratore, studioso delle culture orientali e convertito all’Islam – deve il suo soprannome Kim al personaggio principale dell’omonimo romanzo di Rudyard Kipling. Il comunismo lo conobbe durante i suoi studi, prima alla Westminster School e poi al Trinity College di Cambridge.
Kim Philby e i Cambridge Five
È qui, nella Great Britain colta delle antiche biblioteche unversitarie, che si trova l’altra chiave del mistero Philby: la comune origine altolocata è il tratto distintivo di tutt’e cinque dei cosiddetti Cambridge Five. Stiamo parlando, insieme a Philby, di Donald MacLean, Guy Burgess, Anthony Blunt e John Cairncross, giovani facoltosi di famiglie altoborghesi che fin dall’università avevano abbracciato la causa del comunismo, entrando tra le fila dell’intelligence britannica e rendendosi al tempo stesso a disposizione dei servizi segreti sovietici, fino alla defezione e successivamente alla loro pubblica ricomparsa a Mosca. Ma la vera “primula rossa” (è proprio il caso di dirlo) fu proprio Philby: 27 anni di soffiate a Mosca da posizioni operative di assoluto rilievo hanno significato una catastrofe per l’intelligence occidentale e chissà quanti agenti perduti sul terreno.
Perché?, è la grande domanda. Negli ambienti dell’intelligence hanno inventato un acronimo che spiegherebbe cosa muove, al fondo, le spie che saltano il fosso: è MICE, che sta per “money, ideology, coercion and ego” (denaro, ideologia, coercizione, ego). “Ma Philby non è mai stato mosso dal bruto guadagno, sicuramente non è stato forzato. Quel che rimane è l’ideologia e l’ego”, dice Mcintyre. Per capire quella scelta bisogna immergersi in quel momento storico, quello dei primi anni Trenta, argomenta ancora il giornalista del Times. “La guerra civile stava devastando la Spagna e a molte persone il comunismo appare l’unica via per fermare il fascismo: detto questo, credo che il percorso di Philby inizi dall’ideologia e finisca con l’ego. Più andò avanti, più si trovò ad essere ossessionato dalla segretezza. I segreti creano dipendenza, ad un certo punto arrivano ad essere altamente tossici. E non lo vedi solo nella sua vita politica e professionale, ma anche nella sua vita privata: era patologicamente infedele, con Elliott, con le sue mogli. Con tutti”.
Fedele ad un ideale, infedele alle persone. Fedele ad uno Stato, infedele a chi amiamo. Non c’è bisogno di scomodare John Le Carré (si narra di un incontro saltato all’ultimo tra lo scrittore e Philby), non c’è bisogno della Talpa o del Nostro uomo all’Avana per saperlo: forse sta qui, alla fine dei giochi, il cuore della tragedia del Novecento.
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