Quando Nichelle Nichols incontrò Martin Luther King a Beverly Hills, il dottor King le strinse la mano e le confessò di essere un “trekkie”. La prima stagione di Star Trek era appena andata in onda, Nichols interpretava Uhura, la responsabile delle comunicazioni della USS Enterprise. Nichols, nera, era stata presa per fare un ruolo che avrebbe potuto fare anche una bianca, e non succedeva spesso. Non succedeva mai. Ma Star Trek non era ancora Star Trek, e non era ancora chiaro se sarebbe stato rinnovato per una seconda stagione. Nichols non si vedeva bene sulla Enterprise: amava cantare e ballare, amava Broadway. Lo spiegò anche a King. Prese coraggio, e aggiunse che anche lei avrebbe voluto marciare. King la guardò seriamente: “No, no, tu non capisci. Non abbiamo bisogno che tu marci con noi. Tu stai marciando. Tu sei quello per cui lottiamo”. Lei era allibita. “Ma non lo vedi che per la prima volta, siamo visti come dovremmo essere visti? Tu non hai un ruolo nero, tu hai lo stesso ruolo degli altri”. Nichols continuò a interpretare Uhura per altri venticinque anni.
La forza plasmatrice delle immagini
Sulla forza plasmatrice delle immagini, Martin Luther King aveva le idee chiare, e conosceva il potere della televisione. Sessant’anni fa esatti, il 28 agosto 1963, pronunciando le parole sotto “l’ombra simbolica” di Lincoln, “I have a dream”, King parlava ai 250.000 manifestanti radunati a Washington, e ai milioni di telespettatori delle tre reti televisive americane, ABC, NBC e CBS. I segregazionisti le definivano rispettivamente “Asshole Broadcasting Company”, “Negro Broadcasting Company”, e “Communist Broadcasting System”: anche loro avevano capito che la televisione, e il suo portato di realtà, non li avrebbe aiutati.
La visione delle violenze può muovere le anime più moderate. Da una cella di Birmingham, Alabama, qualche mese prima del discorso al Lincoln Memorial, King mandava una lettera a un compagno della Southern Christian Leadership Conference, per spiegargli come attrarre l’attenzione dei media. La chiudeva scrivendo: “In un momento di crisi, ci serve un po’ di drama”. Dopo la repressione brutale della marcia di Selma, il Bloody Sunday, il reverendo sancì: “Siamo qui per dire agli uomini bianchi che non permetteremo più loro di manganellarci negli angoli bui. Li costringeremo a farlo alla luce accecante della televisione”.
Le televisioni mostrarono le immagini nel ’65, i cinema le hanno ri-mostrate nel 2014, nel film Selma di Ava DuVernay. Chiesero a DuVernay quali vuoti avesse voluto riempire, cosa mancasse alla rappresentazione di Martin Luther King sullo schermo: “Beh, manca tutto. Non c’è mai stato un film ad alto budget il cui protagonista fosse il dott. King. Ci sono stati alcuni film per la televisione e alcune belle rappresentazioni teatrali, ma non un film. Sono stati fatti film biografici su Jimmy Hoffa e sulla signora che ha inventato i Tupperware, o roba del genere, ma non c’è mai stato un film biografico su King o un qualsiasi tipo di film con lui al centro”.
Il precedente di Malcolm X
L’unico precedente paragonabile era stato il Malcolm X di Spike Lee, un caso isolato. Come Malcolm X, Selma ricevette due nomination all’Oscar, un’edizione quella 2015 rimasta alla storia per l’hashtag #OscarsSoWhite. Alla première newyorkese, il cast aveva indossato delle magliette nere, la scritta bianca “I can’t breathe”. Erano le ultime parole di Eric Garner, saranno le ultime di George Floyd, soffocati entrambi dai poliziotti. In un commento anonimo sull’Hollywood Reporter, un membro dell’Academy spiegò di essersi sentito offeso da quelle magliette vestite dal cast. Per rendere la propria demografica meno suscettibile, l’Academy estese il diritto di voto a migliaia di votanti, meno maschi e meno bianchi. Così, dopo Malcolm X e Martin Luther King, quando fu il turno del leader delle Pantere Nere Fred Hampton, il suo interprete Daniel Kaluuya vinse l’Oscar.
Con il film su Martin Luther King, e l’anno prima con 12 anni schiavo, Hollywood si stava preparando a un’ondata nuova, nata in seno a Obama e in faccia a Trump. Il nuovo cinema afroamericano è arrivato come un fiume in piena, un movimento vasto e assortito, talvolta politicamente didascalico, talvolta vigorosamente militante.
In esso, i film da stagione dei premi si mischiano ai film d’autore – Il diritto di contare, Loving, The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo, Race – Il colore della vittoria, i film di Barry Jenkins e quelli di Steve McQueen, Detroit, Green Book, gli ultimi film di Spike Lee, Ma Rainey’s Black Bottom, Quella notte a Miami…, Shaft, Judas and the Black Messiah, The Harder They Fall, Passing, The Woman King – e i film di genere si prendono il rischio di sperimentare – Sorry to Bother You, Black Panther, la saga di Spider-Verse, i film di Jordan Peele, The Last Black Man in San Francisco, Candyman. Ne è nata grande televisione – Atlanta, When They See Us, Hamilton, Watchmen, I May Destroy You, Swarm, Small Axe, The Underground Railroad. Ne è nato grande documentario – Summer of Soul, I Am Not Your Negro, O.J: Made in America, 13th di Ava DuVernay, e presto il suo Origin, in concorso a Venezia.
Da Martin Luther King a George Floyd
È una lista assolutamente parziale, che già da sola raccoglie moltitudini, correnti e contraddizioni. Il maestro Spike Lee definì Green Book, il vincitore dell’Oscar, “not my cup of tea”, non proprio il mio genere. Per la seconda volta, Lee perdeva contro un film su un’autista dopo che a rubare la statuetta al suo capolavoro Fa’ la cosa giusta era stato “motherf—ing Driving Miss Daisy”. Per trovare un unico comune denominatore bisogna tornare a quell’idea di cinema come marcia, quell’idea di rappresentazione come attivismo. A quell’intuizione che le immagini debbano mostrare l’aspro mondo reale e ispirarne uno più dolce. Comunque far vedere: quanto nei cinema, l’eredità culturale e visiva di Martin Luther King vive altrettanto nel cellulare di Darnella Frazier, la diciassettenne che nel 2020 ha filmato George Floyd morire. In un’intervista dello scorso anno, Spike Lee ha sintetizzato: “Credo che i cittadini bianchi di questa nostra Terra, quando hanno visto quel brutale, feroce video del fratello George Floyd, dai, sono stati colpiti davvero. E sono scesi in strada. Le immagini possono essere potenti.
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