Unica, provate a digitarlo su Netflix. Primo in Italia, quarto nel mondo tra i film non in lingua inglese, ma difficile che sia uscita fuori dai confini nazionali la visione di questo giro delle icone e dei miti del raccordo anulare in 80 minuti. Un fenomeno, comunque: di visione, di costume, di dibattito (se così si può definire) culturale. Nessuno, neanche noi, si è sottratto a dire la sua su questo. Anche se avremmo voluto sapere cosa ne avrebbe pensato Umberto Eco.
Il punto però è un altro: perché l’intervista fiume della soubrette dà così fastidio ai benpensanti, al di là delle semplificazioni gramelliniane che hanno inventato il patriarcato giallorosso, una categoria dello spirito tanto sopraffina quanto improbabile (come molte di quegli editoriali)?
Perché tutti sentono il bisogno di darci il proprio giudizio morale sulla ex conduttrice de Le Iene, Grande Fratello Vip e L’isola dei famosi e la propria recensione sdegnata sul documentario che la vede protagonista?
La domanda è: cosa si aspettavano? Cosa ci aspettavamo? Anna Magnani in un documentario di Agnes Varda, con l’eloquio di Rita Levi Montalcini?
Unica
Cast: Ilary Blasi, Melory Blasi, Silvia Blasi, Daniela Serafini, Michele Masneri, Giorgia Lillo Lori,
Regista: Tommaso Deboni
Sceneggiatori: Peppi Nocera, Romina Ronchi
Durata: 80 minuti
E invece ci troviamo con un prodotto sincero in cui la nostra eroina – si fa per dire – si presenta per chi è, non negando le proprie origini ma anzi rivendicandole, tirando fuori la cazzimma televisiva che ha sempre avuto, con ironia cinepanettonesca e faccette e mosse un po’ coatte.
Se non la ricordate, tornate alla vendetta consumata su Fabrizio Corona 13 anni dopo il pettegolezzo prematrimoniale Vento-Totti, così ben celebrato da Michela Giraud, per capire la natura profonda di questa lunga intervista con luci barbaradursiane e look da neocougar morigerata.
@michelagirauddue anni fa avevo già imparato a memoria l’ ”unica” poesia da recitare a Natale.♬ suono originale – Michela Giraud
Tutto questo è condito con qualche ingrediente dozzinale ma efficace (il cerone che incupisce e rende più serio il suo viso, la camicia bianca e il pantalone scuro alla Amber Heard, l’intervistatore che è più funzionale e decorativo di un assistente di Chiara Ferragni), una retorica elementare, un’estetica un tanto al chilo, che avrebbe dovuto avere la furbizia ulteriore di un product placement di Lavazza o Kimbo o Caffè Borbone, tanto il caffè è un’ossessione di questo documentario. Perché una non è Unica né la Sun-Tzu della Magliana mica a caso.
La recensione di Unica
Non si può dire che Unica non sia un prodotto onesto, fin dal suo trashissimo trailer, ma se pure lo spettatore fosse tardo di comprendonio arriverebbe la designazione come regista di Tommaso Deboni – già autore del doc stracult Gianluca Vacchi, Mucho Màs, 71 minuti di vuoto pneumatico – a dirci che no, non vedremo un’opera di un Bergman redivivo. Semplicemente perché non vuole esserlo.
Ilary Blasi vuole rivolgersi al suo pubblico, quello dei reality e al romano che ha perso la sua famiglia reale e glielo rimprovera, vuole essere la loro Lady I, in questo si mostra più furba e conoscitrice del proprio target di riferimento rispetto all’ex marito che in un impeto di grandeur ha scelto Aldo Cazzullo e il Corriere della Sera come postini del suo slut-shaming in un’intervista che è un tiro a segno di rara violenza (verbale).
Lei incassa, proprio come fece con Fabrizio Corona, si fa un paio di udienze, fa sì che entri nell’immaginario collettivo la questione Rolex-Borse/Scarpe – e dopo un annetto circa si vendica. Con 80 minuti di racconto, confessione, lacrime tamponate con pose plastiche, gambe chilometriche che simulano posizioni yoga che ci farebbero rompere il menisco se solo provassimo anche solo a pensarle e che in lei dovrebbero dissimulare naturalezza.
La stessa naturalezza evidente in primi piani e campi medi tutti uguali, in lacrime di (pelle di) coccodrillo, nei racconti misurati alla parola, alla frazione di secondo di pausa, come una Corinna di Boris che però ha piena consapevolezza di cosa dire e come. Cagna maledetta sì, ma efficacissima.
Non vuole che Unica sia bello, Ilary Blasi, non desidera che migliori il suo standing, questo documentario è il corrispettivo video del suo ritrovamento appassionante di scarpe e borse, in una casa che evidentemente dopo 20 anni ancora non conosceva in tutti i suoi ambienti, in una reggia che nasconde ma non ruba. Perché quest’opera ha pure una variante thriller-investigativa, con un detective privato che sembra uscito da un programma comico che si fa beccare dall’entourage del campione, costringendo Blasi e la moglie del cugino di Totti, Giorgia, migliore amica di lei, a far da sole, in un’avventura che potrebbe diventare un remake al femminile di un classico, anzi due: Amiche mie feat. Therma e Luisa.
Non è una vendetta, è ricordare a tutti chi comanda, è prendersi l’ultima parola nella lite più importante della tua vita, è prendere il patriarcato dall’interno e rovesciarlo, sì. Perché Ilary non è femminista, ma di sicuro sabota il meccanismo maschilista dell’appropriazione culturale e indebita del marito sulla moglie.
Ilary si definisce Unica, così come il campione giallorosso, dopo un gol al derby, la definisce con una maglietta. Lo fa con amore e ironia, accettando la definizione altrui su di lei, ma facendo sì, per 80 minuti, di rilevarne anche la grottesca incongruenza raccontandone il tradimento. Il titolo riconosce il suo status iniziale di satellite che però ora è una stella. Magari supercafona – eccola qua, Ilary è il suo nome nun lo scordà – ma star.
Perché (ci) dà tanto fastidio questo documentario?
Quello che sconcerta, e che è davvero patriarcale, è la reazione scomposta di donne e uomini a questo lavoro. Perché Ilary Blasi ha smosso, con le sue parole, pareri tanto controversi? Semplice, è una donna, 42enne, che prende in mano la narrazione che abbiamo di lei (ex letterina, famosa per riflesso, parassita rifatta) e la riscrive come vuole, con un controllo che su un documentario, in passato, ha avuto solo Chiara Ferragni.
Non lascia nulla al caso. Neanche la segretezza di questa intervista (il caffè fedifrago se l’è fatto beccare, ma questa che è una cosa seria neanche se la immaginava Tottigol), neanche il tassista che, con una sincerità che non ha avuto alcuno dei suoi detrattori (lui, almeno glielo dice in faccia), le confessa che è convinto che ha iniziato lei a cornificarlo. E lei, principessa, neanche gli risponde. Rosica, un po’, ma guarda l’orizzonte e sorride amara.
Perché ci dice che una donna può vedere un altro uomo per un caffè (com’è possibile che il caffè, che nel documentario compare più che in una pubblicità della bevanda più amata e bevuta dagli italiani, non sia ancora al centro di meme irresistibili? Che si sani questa incredibile mancanza).
Perché non ci piace che possa rivendicare la sua indipendenza, che ci ricordi che non può essere messa di fronte a una scelta “o me o il tuo lavoro”, come troppo spesso accade in case meno spaziose e lussuose. Ci dice che ogni donna può sottrarsi allo stereotipo di mamma chioccia italiana e all’occorrenza può barattare la sua libertà con la crociera con figli dell’ex marito con l’amante (anche se, Ilary mia, definirsi una separata in casa in una magione in cui tu stessa ti orienti con google maps mi sembra un vittimismo eccessiva).
E non è sopportabile che Er numero 10 possa essere messo alla porta dall’ex letterina, perché siamo tutti femministi e politicamente corretti, ma la vita del calciatore è pur sempre il sogno di ogni maschio alfa. Non ce lo puoi sgretolare davanti agli occhi.
Perché gli uomini di questa storia sono tutti improbabili. Il cugino Angelo, che si beve la scusa dei tarocchi, il Pupone descritto come manipolatore e infantile, che si fa mettere alla porta per una crociera in cui s’era già venduto la pelle dell’orso con la comitiva d’amici e la nuova fiamma, i tassisti che sono il disco rotto del film insieme all’onnipresenza del caffè, il detective più tonto e affettato della storia. Personaggi goffi al limite del grottesco.
Perché sfida il patriarcato introiettato da tutti noi, quello che se sei la moglie di Francesco Totti, sotto sotto devi accontentarti del ruolo di principessa consorte, non puoi sfidare la grandezza del Re di Roma osando una carriera televisiva che ti porta in auge, ingrata, proprio mentre lui si ritira dal calcio e torna Pupone indolente e inconcludente (anche se, va detto, più per colpa dei Pallotta che sua).
A chi cita Beckham da confrontare con Unica, diciamo che è come mettere a paragone Storia di un matrimonio e Sandra e Raimondo in Casa Vianello. Sono due prodotti diversi, il nostro è più un Johnny Depp-Amber Heard all’amatriciana, ma c’è qualcosa che li accomuna. Ilary Blasi sembra dirci che no, Totti questo sgarbo non glielo doveva fare.
Non tanto e non solo perché si amavano, perché lo ama ancora. E tanto: sembra tuttora sentirlo come l’uomo della sua vita, e la nostalgia della famiglia di lei per il lui di un tempo, quel ragazzo semplice “come me” -?!? – è a suo modo struggente, seppur da soap opera. Ma perché quando due assi dei rispettivi campi si sposano non mettono su solo un ménage familiare – fatto, ricordiamolo, di tre figli che probabilmente non apprezzano né apprezzeranno troppo quella paginata del Corsera così come questi 80 minuti – ma anche un’azienda e un brand.
E che Totti, per un caffè di 40 minuti a casa di un altro abbia fatto saltare questa joint venture, lei lo considera forse il tradimento maggiore. Proprio quando più serviva a Blasi essere sostenuta, lei che gli ha tenuto la mano anche nel momento più duro, quello del secondo Spalletti, con interviste infuocate, lui ha fatto saltare tutto.
Perché il vero patriarcato, almeno tra i Vip, è un falò delle vanità. Quello che fa limonare Fedez con Rosa Chemical nel Sanremo condotto dalla moglie, perché questi bimbi egocentrici non sanno gestire una compagna che brilli più di loro. Simpatici puponi che non sopportano di rimanere in secondo piano. Perché la moglie famosa va bene se con i social mi fa arrivare secondo al Festival, non se ci va lei e per giunta entra dalla porta principale.
Unica è il guilty pleasure dell’anno, quel film che vediamo tutti e se arriva nostra moglie o nostro marito cambiamo mettendo un porno perché ci vergogniamo di farci sorprendere mentre fingiamo di indignarci. Ilary è la Chiara Ferragni der Torrino, un Amber Heard più simpatica, the new Sora Lella.
Ma soprattutto è romanissimamente ‘na paracula, con tempi comici invidiabili e un'(auto)ironia insospettabile. E per una donna nella Roma dei tassisti maschilisti, dei tifosi che empatizzano con dei Rolex imboscati, è un peccato mortale. Soprattutto perché, non lo ammetteremo mai, ma ci convince. E Noemi Bocchi, in un attimo, diventa la Camilla Parker Bowles di Vigna Clara. Sarà regina, forse, ma senza corona.
P.S.: Ilary, che poi quando Francesco capisce che questa è una dichiarazione d’amore lunga 80 minuti, capace che torna pure. E l’impressione è che mamma Daniela sarebbe pure contenta.
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