Teen Vision: Mare Fuori, il guilty pleasure di una generazione

L’uscita della terza stagione ha cambiato tutto, ha reso impossibile a chiunque frequenti una scuola superiore sfuggire al fascino napoletano dei cattivi ragazzi e delle loro storie d'amore. Parte del fenomeno che è Mare Fuori siamo noi, la massa interminabile di ragazzi che dopo anni è tornata a guardare un prodotto della Rai

Continua su The Hollywood Reporter Roma la rubrica “Teen Vision” di Lea Torrisi, 16 anni

Febbraio 2023. Qualunque liceo italiano, a nord, a sud, non importa. Tra i corridoi e nelle aule echeggia una frase sola: “I’ so’ Rosa Ricci, e tu chi cazz sì pe me ric’r chell ca i’ aggia fa’, eh?” o anche solo la versione abbreviata e più accessibile ai tanti studenti non napoletani che non osano recitare la battuta per intero, un semplice “I’ so’ Rosa Ricci, e tu chi cazz’ sì?”.

La prima volta che ho sentito parlare di Mare Fuori è stato nel giugno del 2022 ad un campo estivo, ha voluto il caso, a Napoli. Si stava parlando di camorra, qualcuno usò Mare Fuori come esempio, molti ragazzi, me inclusa, non ne avevano mai sentito parlare. Molti ragazzi che non erano di Napoli: gli unici che conoscevano la serie erano anche gli unici ad abitare nella città dove è ambientata. Un caso? Forse, ma non è importante perché sei mesi dopo a Roma, nella mia classe, ero una dei pochi, pochissimi, che ancora non sapevano cosa fosse l’IPM di Napoli, cosa fosse un “chiattillo”, chi fossero Carmine Di Salvo e Rosa Ricci.

Da una parte i nonni, dall’altra noi

L’uscita della terza stagione, a febbraio di quest’anno, ha cambiato tutto:  ha consacrato il successo di Mare Fuori, ha reso impossibile a chiunque frequenti una scuola superiore (e forse anche una scuola media) sfuggire al fascino napoletano, dei cattivi ragazzi e delle storie di amori impossibili. L’uscita della terza stagione, ha reso Mare Fuori il fenomeno che è oggi. Ma non un fenomeno qualunque, che tutti ammirano affascinati, che tutti vogliono osservare da vicino. C’è una parte d’Italia che Mare Fuori l’ha visto come vede molte altre fiction, che è abituata ad accendere la tv, andare sulla Rai (o Mediaset, cambia poco) e guardare personaggi che sono sempre gli stessi dal 1996.  C’è un’altra parte che invece non era abituata a guardare così la tv, una parte di pubblico che la Rai (o Mediaset, cambia poco) aveva perso o forse non aveva mai avuto. Da una parte ci sono i nostri genitori, i nostri nonni, dall’altra ci siamo noi, i ragazzi.

Parte del fenomeno che è Mare Fuori siamo noi, la massa interminabile di ragazzi che dopo anni è tornata a guardare un prodotto della Rai. Siamo noi che a migliaia impariamo la sigla a memoria, che guardiamo tutti la stessa serie nello stesso momento. Non è semplice che questo accada, non è scontato, soprattutto per una serie italiana. Mare Fuori non ha una trama estremamente complicata, temi che suscitano riflessioni particolarmente profonde: segue le vite dei ragazzi, diversissimi tra di loro, che si trovano all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile di Napoli. Segue le faide e le storie d’amore, le amicizie e gli odi, nulla di troppo innovativo.

L’enigma di Mare Fuori

Resta quindi l’enigma: cosa distingue Mare Fuori dalle moltissime altre fiction Rai? Potrebbero essere gli attori, soprattutto i giovani del cast, che oltre ad essere attraenti sono anche talentuosi. Potrebbe essere la regia che più volte durante gli episodi si fa notare, prova a proporre inquadrature nuove, non banali. Potrebbe essere la sceneggiatura che, anche se a volte capita di storcere il naso davanti a dialoghi discutibili, tendenzialmente è di livello superiore a quello di altri prodotti Rai. Forse, probabilmente, sono le storie che sono state raccontate: tra risse nella mensa del carcere, nei bagni, tra piani escogitati dai ragazzi per vendette volute da altri, da quelli che stanno fuori, tra pecori, pazzi e camorristi ci sono storie riconoscibili, semplici, nelle quali è facile immedesimarsi.

Ci sono le storie d’amore, tante e diverse, le cotte che piano piano diventano qualcosa di più; ci sono le passioni che sbocciano, che aiutano, salvano anche; c’è la voglia di ritrovarsi, di cambiare, di sapere, una volta per tutte, chi si è; e c’è chi ti aiuta lungo la strada, gli amici, i lavoratori dell’IPM, ma anche i nemici. La serie fa un ottimo lavoro a non romanticizzare quanto violenta e dura può essere l’esperienza dell’incarcerazione, quindi c’è anche chi sbaglia, chi non si fa aiutare, chi non ce la fa, ma nonostante tutto la regina della serie rimane sempre la speranza, perché, nonostante tutto, c’è sempre “sto mare fuori”.

“So che è della Rai, ma…”

Nella mia scuola tutti parlano di Mare Fuori ma tutti fanno una premessa: “So che è della Rai, ma…”. Tutti un po’ si vergognano di dire che sono in fissa con Mare Fuori. Gli unici a testa alta sono quelli che, orgogliosi, dicono che non l’hanno vista, che hanno resistito alla tentazione. Ora direi, gli unici che non hanno saputo superare i luoghi comuni, che non credono alle eccezioni. Gli unici che pensavano di essere meglio, me inclusa. Quella piccola esitazione nel dire che sì, ci è piaciuta Mare Fuori, è il peso della Rai.

Per noi le fiction della rete pubblica sono sinonimo di scarsa qualità e dialoghi inascoltabili. Sono la voce del Commissario Montalbano che da quando siamo piccoli sentiamo entrare dalla finestra perché la vicina ormai non ci sente bene e deve mettere il volume al massimo. La Rai per noi è un po’ trash, è un po’ cringe, è Gli occhi del cuore. Diventa quindi difficile ammettere che forse un prodotto della Rai potrebbe non essere così male. Diventa quindi difficile superare l’orgoglio e aprire RaiPlay.

Tuttavia c’è qualcosa di più difficile.

Febbraio 2023. Sono a scuola e tra i corridoi e nelle aule echeggia una frase sola: “I’ so’ Rosa Ricci, e tu chi cazz’ sì?” E tutti ridono e parlano di come o’ chiattillo e o’ piecuro siano migliori amici. E io non capisco niente. Non so come inserirmi nel discorso. Torno a casa, supero l’orgoglio e apro RaiPlay.  Un po’ mi vergogno, ma sto guardando Mare Fuori e mi piace. Mi piace come a tutti quelli che ne parlano nei corridoi della scuola. Un po’ ci vergogniamo ma ci piace: è il nostro guilty pleasure.