Un sipario rosa neon, drappeggiato e inconfondibile, e un’orchestra dal vivo attendono un pubblico anomalo, vestito in parte di piume e di paillettes: è quello del Rocky Horror Show.
C’è un senso, però dietro quest’immagine a prima vista inusuale. C’è patto, un accordo tutt’altro che segreto – ma che potrebbe disorientare la platea “vergine”, come viene chiamata quella degli spettatori occasionali – che a ogni replica permette di infrangere il galateo del teatro e rompere la sacralità della distanza tra palco e poltrone, inventandone un’altra, tutta nuova. Fatta di “botta e risposta” con il Narratore, battute extra, parrucche e tacchi vertiginosi ispirati ai personaggi.
Le date di Roma non si sottraggono a questo rito collettivo di scherzosa “insubordinazione”, in linea con lo spirito dello spettacolo di Richard O’Brien, permettendo di dialogare con Claudio “Greg” Gregori, Narratore speciale delle serate romane e unico artista italiano sul palco che ospita la compagnia originale del West End londinese (tra cui il veterano Kristian Lavercombe nei panni di Riff Raff).
Di passaggio per la seconda volta in un anno nella capitale, al Teatro Olimpico (21-26 novembre), lo spettacolo viaggerà per l’Italia e l’Europa, concludendo a marzo 2024 una tournée mondiale che celebra i 50 anni del famoso spettacolo andato in scena per la prima volta nel 1973 al Royal Court Theatre del West End di Londra. E poi diventato un film cult (The Rocky Horror Picture Show, 1975), con la regia di Jim Sharman.
Un’opera che già in sé fa dialogare cinema e teatro, mettendo in scena una parodia volutamente grottesca della fantascienza e dei musical, trova ulteriore spazio di espressione nella versione-omaggio del cinquantesimo anniversario, diretta da Christopher Luscombe. Fedelissima al testo (quello riscritto da O’Brien negli anni Novanta), è nella scenografia ricchissima e immaginifica (l’effetto-wow è assicurato nei primi cambi di scena) e nella potenza vocale degli attori, sulla musica live, che questo adattamento trova i suoi veri punti di forza.
Irremovibile e potentissimo, in ogni caso, resta il messaggio, ancora valido oggi come nel 1973.
Rocky Horror: trasgressione intergenerazionale
So I’ll remove the cause but not the symptom, così il protagonista Frank-N-Furter (Tim Curry nello spettacolo originale e nel film, Stephen Webb nella versione odierna) conclude il suo brano introduttivo, quello più celebre, Sweet Transvestite. “Rimuovere la causa ma non il sintomo” è ciò che ancora oggi si potrebbe dire sul senso del musical. Perché nonostante appartenga a un contesto storico diverso (la causa), ancora oggi risuona, su corde diverse, il potere di quella trasgressione (il sintomo), di quel senso di liberazione e quell’idea, Don’t dream it, be it, che non vuol dire altro che: “abbi il coraggio di mostrarti per come sei”.
Nel 1973 i moti di Stonewall avevano già rivoluzionato da quattro anni la società statunitense dando inizio al movimento Lgbt (giugno 1969) e al Gay Liberation Front, arrivato fino in Gran Bretagna proprio tra il 1971 e il 1973. Nello stesso anno l’attivista Harvey Milk portava avanti la sua prima, anche se fallimentare, campagna elettorale a San Francisco. E sarebbero trascorsi altri quattro anni prima che arrivasse realmente in politica.
È in quel periodo che il Rocky Horror Show, a teatro (e poi al cinema) anticipa, coglie e dà forma anche per il futuro a una trasformazione radicale che, nonostante sia nata in un contesto britannico, è agli Stati Uniti che parla, rivolgendosi alla sua morale pudica, stravolgendo lo stereotipo dei classici musical e del cinema di genere.
Wild and Untamed Thing: Frank-N-Furter, l’alieno inafferrabile
La fantascienza cantata dall’opening act, Science Fiction/Double Feature, quella di The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra, 1951) e Forbidden Planet (Il pianeta proibito, 1956), viene invasa dal glam rock di Frank-N-Furter.
L’alieno pansessuale, in cross-dressing e trucco da drag queen che incarna e stravolge al tempo stesso lo stereotipo dello “scienziato pazzo” dei B-movie e quello dell’extraterrestre atterrato sulla Terra per conquistare l’umanità. Inneggia alla “follia che prende il controllo” e al piacere dei sensi, contro una società bigotta che, guardando la coppia di co-protagonisti, Brad Majors e Janet Weiss, somiglia ancora ai due soggetti dell’American Gothic di Grant Wood (celebre dipinto degli anni Trenta che rappresenta la castità e la morale del Midwest americano). Non a caso presente poi nel film.
È un’esagerazione, ovviamente, ma è anche un modo per prendere di mira e ironizzare su tutto ciò che, di volta in volta, circonda il Rocky Horror Show fuori dal palco, oltre lo schermo, nella vita reale.
Visone del mondo ibrida
Nel Rocky Horror Show, Frank è il cerimoniere di un rito di “svestizione” collettiva, in cui ci si spoglia di ogni costume che la società impone, non solo in modo figurato, per rimettere al centro una cosa soltanto, il desiderio. Che sia per sempre o per due ore soltanto a teatro. Un desiderio che però esclude il modello del “maschio americano”, del Brad Majors di turno che in qualsiasi altra tradizionale storia di alieni e fantascienza sarebbe stato l’eroe, ma che, finto ingenuo e paternalista, viene invece “sconfitto” da Frank-N-Furter e piegato alla sua visione del mondo ibrida, libera e fluida.
È ridondante affermarlo oggi? Non se si considera che si muore ancora di omotransfobia, in Italia, e che il desiderio femminile (cantato apertamente dal personaggio di Janet) è un tabù difficile da sradicare, o anche solo da riconoscere, sintomo di una visione patriarcale e ostentatamente maschile che arriva fino agli esiti più violenti delle pagine di attuale cronaca.
Il testo di O’Brien già dal 1973 aveva intuito la necessità di un nuovo modello da inseguire e da rappresentare. E, seppur in forma parodica, Frank-N-Furter è sempre stato ed è anche oggi un personaggio “tragico” senza tempo, un emarginato e un estraneo, che alla fine della storia viene comunque spinto fuori dalla cornice, anche se il suo tocco resta indelebile.
È una creatura nuova e al tempo stesso sempre esistita, che Jim Sharman sintetizza in una sola immagine nel film del 1975: Tim Curry che galleggia sull’acqua, a metà fra l’Adamo e il Dio di Michelangelo, stampati sul fondo di una piscina. E che Stephen Webb sul palco, nel 2023, rappresenta ancora come la creatura più potente di tutte, perché senza confini e senza limiti: imponente ma sensuale, drammatica e comica. Una maschera, un demone, un uomo, una donna. Ogni cosa, in un corpo solo.
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