Caterina Murino, ovvero Hollywood, Bollywood e cinema italiano. Una Bond Girl lunga qualche centinaio di secondi, la sfortunata, bellissima, malinconica, annoiata e coraggiosa Solange, il cui bikini verde rivaleggia tuttora con il costume di un’altra leggendaria, archetipica conquista dell’agente segreto più famoso del mondo, Ursula Andress. Una lunga carriera da icona del cinema francese: grazie a Il bandito corso, con Jean Reno, che la vede protagonista ancora oggi, dopo quasi 20 anni, di ascolti straordinari sulla tv francese a ogni passaggio: e lei lo fece due anni prima di Casino Royale. Mattatrice a teatro e attrice in Italia per autori outsider e pieni di talento come Gianni Zanasi e Pappi Corsicato, per citarne un paio abbastanza fantasiosi e originali da saper percorrere strade altre e alternative anche nel casting.
È il primo viso che vedi, insieme a quello di Bob Sinclair, nel videoclip officiale del remix di quest’ultimo di Far l’amore di Raffaella Carrà, canzone diventata mitica per essere la colonna sonora della scena della festa sfrenata iniziale de La grande bellezza.
Uno di quei volti che il mondo intero ha visto almeno una volta nella vita. E che non dimentichi facilmente.
Ha fascino e carisma prima che una bellezza antica di quelle che migliorano con il tempo che lei non nega, ma rende suo alleato. Ora ha l’onore e l’onere di essere la madrina dell’80esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. E ci mette quel solito mix di passione e professionalità che ne costituisce l’imprinting attoriale ma anche personale.
Leggenda vuole che Drew Barrymore una volta disse che potevi lavorare con grandi registi, partecipare alla cerimonia degli Oscar, ma che nessuno poteva prepararti per la tua festa dei 18 anni. Si può dire lo stesso di quello che succederà a lei? Si può lavorare in tre continenti, partecipare a un film di James Bond, lavorare da più di vent’anni, ma nessuno può prepararti a fare la madrina a Venezia?
È certamente così, quello che affronterò mi mette una certa emozione, ma so anche che nessuno a un compito del genere si può presentare preparato. Non so cosa mi aspetti realmente, anche se non nego di aver visto tutti i video delle mie colleghe e colleghi degli altri anni. C’è l’imprevedibile che non possiamo calcolare, per me è una cosa completamente nuova e soprattutto che capiterà una sola volta nella vita. Il che vuol dire che quando avrò fatto esperienza del ruolo, non potrò approfittarne per farlo meglio successivamente. Sarà un salto nel vuoto di 11 giorni in cui è fondamentale essere pronti a ogni evenienza, a partire dal prepararsi perfettamente il discorso, studiare il testo, trattar bene gli abiti che abbiamo scelto.
Testo e abiti. Conoscendola, saranno pronti da mesi.
No, è l’80esima edizione, non hanno voluto lasciare nulla al caso, quindi è tutta farina del sacco della Mostra il testo, non c’è qualcosa di mio. Ed è arrivato poco tempo fa. Ma sì, l’ho studiato senza sosta. Gli abiti li ho scelti più di un mese fa, con il mio ufficio stampa, la mia stylist, contaminando ciò che desideravamo con le proposte che ci sono state fatte. In questi casi la prima cosa che devi fare è guardare e decidere per un abito che sia consono al tuo corpo, che ti faccia sentire a tuo agio, che rispecchi la tua personalità. Hai molta scelta, quando ti nominano madrina di Venezia, quindi non puoi sbagliare. A dir la verità meno di quanti molti immaginino, ti confesso che ci sono stati anche stilisti che amo che hanno preferito declinare, non ci siamo fatti mancare nulla.
Non ci ha detto cosa indosserà, immaginiamo che non dirà neanche chi sono i pazzi che hanno rifiutato di vestirla…
Non lo farò, ha ragione. Ma non solo per discrezione. Ho imparato negli anni a guardare le cose in modo diverso. Penso alla Caterina attrice di teatro che per anni era ossessionata da chi era rimasto a casa, ora invece sono concentrata su chi è uscito da casa sua, magari ha affrontato pioggia, traffico, problemi di parcheggio, ha preso un taxi per venire a vedermi, a vederci. Conta chi è davanti a te a riscaldare la poltrona, le persone che ci sono e che saranno fondamentali anche in questa settimana e mezzo rutilante. Non chi non ci è voluto essere.
Lei è una che si emoziona o che invece va molto in controllo e magari poi scarica dopo?
Scaricare dopo, no, non riesco. Dipende, ad esempio nell’ultima pièce di teatro che era anche la mia prima a Parigi, sono stata molto tranquilla ed è tutto andato perfettamente, tanto che adesso ne sto già preparando una nuova. In un nuovo teatro e quindi potrebbe cambiare tutto, perché contano tanto anche i luoghi, i legami che sai crearci, l’alchimia con l’ambiente. Qui ho paura del testo, non in sé ma perché sarà un pubblico particolare ad ascoltarlo, che inevitabilmente ti emoziona, ci sono grandi artisti, colleghi, accreditati da tutto il mondo. L’emozione secondo me nasce quanto più sei consapevole di dove sei, quanto meno c’è spazio per l’incoscienza.
Quando le è capitato di sentire questa sensazione di inconsapevolezza?
Sul set di Casino Royale. Tutti quanti mi chiedono, anche dopo 17 anni, come sia stato far parte della saga di James Bond. Io allora l’ho vissuto come un film normale, non avevo davvero capito l’importanza di quello che mi stava succedendo, quanto fosse prestigioso quel set. Ecco, devo ricordarmi quei giorni e tornare a quell’incoscienza, quando ero alle Bahamas e vivevo spensieratamente quello che mi stava succedendo. Intendiamoci, non era superficialità, è come se il mio cervello mi abbia aiutato a gestire quell’enormità, ridimensionandola. O meglio, non facendomi cogliere quanto ci fosse in ballo. Qui a Venezia, insomma, spero al contempo di essere concentrata ma anche di riuscire a scollegare il cervello, magari di immaginarmi su un bel palcoscenico di un teatro italiano.
Di Bond, a distanza di anni, che ricordi ha?
Il primo non è piacevolissimo. La mia crisi nervosa a New York, perché volevano mettermi tra i talent che venivano intervistati da tutta la stampa mondiale e io ho detto “ragazzi no, ci sono un minuto e mezzo nel film, non ha senso”. E lì ricevetti un insegnamento straordinario. Mi dissero, “Caterina tu ora fai parte della famiglia di 007 e ricordati che nessuno si porrà il problema che ci stai solo per un minuto e mezzo ma tutti ti chiederanno quanto è stato grande quel minuto e mezzo”. Avevano ragione, ho ancora memoria dello stupore con cui accoglievo le tante proposte che mi arrivarono dopo Casino Royale, Mi sembrava allucinante. Però poi ho capito che quelle poche pose mi avevano donato anche una grande libertà di scelta, perché non mi avevano incasellato nel ruolo di femme fatale e così la mia carriera si è aperta a tanti ruoli diversi. E dire che tutti mi raccontavano che le Bond girl fanno una brutta fine sia nel film che fuori, che smettono di lavorare. Io serenamente rispondevo sempre: “ho lavorato prima, lavorerò anche dopo”. Avevo ragione.
Usa, India, Italia, tantissima Francia, dove risiedi da 20 anni. Tre continenti. Ha appena finito di girare su un set virtuale, una sorta di metaverso, The Opera! di David Livermore con Vincent Cassel e Rossy De Palma. La chiamano anche perché ha il coraggio di sperimentare generi, registi, paesi, lingue e linguaggi cinematografici diversi?
Hai ragione, abbiamo davvero recitato nel metaverso per David, che esperienza. Anche perché è un ruolo stranissimo: trovo che lui sia un cineasta straordinario, mi ha lasciata libera di creare da sola un personaggio stranissimo e poi ha saputo guidarmi nella sua visione del ruolo, aiutandomi a percorrere la rotta giusta. A me piace proporre, ma anche essere guidata.
Comunque per me è qualcosa di naturale cambiare, cercare esperienze nuove e credo sia anche il motivo per cui ho accettato con grande piacere di essere la madrina di Venezia. Quello che mi eccita dell’essere qui così come del mio lavoro è l’incontro, il dialogo, l’apertura verso orizzonti e convivenze inedite. Anche perché a differenza di molti, che lavorano in Italia con produzioni straniere, io sono andata a girare film locali, ero io ad andare da loro, non erano coproduzioni. Ho lavorato in Argentina, Canada, India, Cina ed erano film argentini, canadesi, indiani, cinesi. Non erano obbligati a prendere qualcuno di una certa nazionalità per convenienza, mi hanno scelta e io ho potuto davvero sperimentare le loro culture, i loro diversi modi di lavorare. La loro sensibilità estetica, professionale.
Non le manca il grande cinema d’autore italiano? Non le pesa aver lavorato a Hollywood, essere un’icona in Francia e non venire scelta dai grandi cineasti italiani?
Leggevo proprio oggi su Instagram alcuni che mi scrivevano “perché non ti vediamo in Italia” e non so rispondere. Il teatro italiano mi chiama tantissimo e mi offre splendidi ruoli e io non mi tiro mai indietro. Con il cinema è diverso e sarei ipocrita a dire che vedendo tanti autori e registi straordinari tra i miei connazionali non mi piacerebbe partecipare ai loro progetti. Però non sono una che piange o rimpiange, ho avuto tante altre opportunità. Lascio che la vita faccia il suo corso, magari ora vedendomi a Venezia i cineasti italiani si ricorderanno di me e mi proporranno dei bei ruoli. Aspetto, la fortuna delle attrici della mia generazione è che le carriere si sono allungate, un tempo a 40 anni una donna che recitava era morta e sepolta. Ti faccio un esempio su ciò che intendo per aspettare: Mio fratello, mia sorella di Roberto Capucci è arrivato grazie al fatto che lui mi avesse conosciuta 20 anni prima. Mi aveva fatto un provino, non mi prese, ma lo colpii. Così tanto che mi ha detto che per anni ha cercato un ruolo per me e poi finalmente l’ha trovato. Alla fine io sono andata in Francia pensando di partecipare a un singolo progetto e non sono più tornata: il punto è cogliere le occasioni, non avere paura. In questo mestiere, magari qualcuno sorriderà, ma il destino conta tanto. Tutti sanno che il giorno prima del provino per Bond caddi da cavallo e dopo aver progettato di andar lì vestita meravigliosamente, magari su un tacco 12, fui costretta a presentarmi semiparalizzata e in tuta. Di contro ricordo provini straordinari, ineccepibili, in cui ero bellissima e bravissima ma dopo i quali non mi è stata assegnata la parte. Non si può fare l’attore e non essere fatalisti.
Lea Leoni de Il bandito corso: destino o bravura?
Entrambi. E ti dice anche come tutto sia relativo. È vero che se sei stata Bond Girl, sarai sempre Bond Girl, ma in Francia io sono Lea Leoni. E quello ha fatto sì che quel paese, quel pubblico, quel cinema mi adottasse come la più francese delle attrici italiane, così mi definiscono. Il mio accento rimane, sempre più lieve fortunatamente, ma ormai l’hanno superato. Prima, appunto, interpretavo una donna corsa, ora posso far parte di una serie in cui sono la direttrice di un istituto medico legale e nonostante il vocabolario medico, il ruolo importante, non sentono neanche il problema di dover giustificare quella parlata con origini straniere del personaggio.
La ricordiamo venticinquenne, meno serena e più inquieta. Ora ha l’aria di divertirsi di più a fare questo lavoro.
Intanto è un fatto d’età, impari a vivere e lasciare che le cose succedano senza remare ossessivamente in una direzione che credi essere quella giusta e necessaria. E poi l’esistenza ti ha imposto delle prove, ti ha dato molto e tolto altrettanto, se non di più, e tu trovi un nuovo equilibrio e superi certe inquietudini perché dopo qualche anno l’esperienza ti suggerisce quali siano le giuste proporzioni da dare a tutto.
Era anche un modo di proteggersi in un cinema molto maschilista?
Lo confesso, non ho mai vissuto tutte queste cose che ahimè molte mie colleghe hanno subito, non mi sono mai dovuta difendere da niente e nessuno, non so se mi ha aiutato la mia “sardità”, se mi ha fatto da corazza naturale.
Colpisce come lei unisca una forte identità locale con un cosmopolitismo totale
Il mio essere sarda è parte integrante di me, a maggior ragione perché ho dovuto abbandonare la mia isola, a cui sono profondamente legata. Va anche detto che probabilmente senza abbandonarla non avrei imparato ad amarla così tanto come adesso, perché vedendola da fuori l’apprezzi ancora di più. È il mio cordone ombelicale che negli ultimi due decenni si è solo allungato e rafforzato. Aiutandomi, con certe caratteristiche che abbiamo noi sardi, ad adattarmi ovunque. Ma solo in Sardegna mi sento a casa.
E il resto dell’Italia com’è vista da fuori?
Bellissima, ma anche dolorosa. Penso ai femminicidi, agli attacchi feroci e atroci contro le donne. E francamente mi fanno rabbia, perché servirebbe un cambiamento radicale, un approccio duro al problema, su due piani: quello dell’educazione, a 360 gradi, e quello della protezione e della repressione legale. Molte delle donne uccise o violentate hanno denunciato i loro aguzzini, che spesso condividevano il loro stesso tetto, e il risultato è che senza certezze delle pene, dei metodi con cui difendere queste donne, senza avere chiari gli strumenti per difenderle, senza sapere come aiutarle e non lasciarle sole, tutto questo non cambierà mai. E l’educazione è altrettanto fondamentale: mi si prende in giro quando cito studi di università importanti che testimoniano che se da piccolo uccidi degli animali, nell’80% dei casi, da adulto, ti macchierai di reati violenti contro le persone. Un animale, e non lo dico solo perché è una causa che mi sta a cuore, è un essere vivente. E che la sua vita venga soppressa, magari per futilissimi motivi, va punito severamente, perché se l’asticella della tua moralità si abbassa così tanto da porre fine all’esistenza di un essere vivente, poi a lungo andare farai lo stesso con altri esseri viventi che magari tu consideri di serie B, come le donne. Su cui eserciti un possesso, un diritto di vita e di morte, come fai con gli animali, appunto. Ma il mondo sottovaluta quelle stragi, vengono considerati oggetti. Il punto sa qual è? Che una risposta del genere ricordo di averla data molto simile anche 10 anni fa. E non è cambiato nulla, anzi temo che muoiano più donne ora.
Ultima domanda. Lì con lei ci saranno anche i giurati, in particolare quelli del concorso internazionale. Quasi tutti registi. Chi vorrebbe che provasse un colpo di fulmine artistico per lei?
A parte che ci sono anche colleghi pazzeschi, come Martin McDonagh, un genio clamoroso. Ma sono fortunata, questa riposta per me è molto facile, perché tra loro c’è una regista che ha girato, creato il mio film preferito nella storia dei tempi, Lezioni di piano. Quando ho letto il nome Jane Campion tra i giurati a momenti svenivo, non so quante volte l’ho visto quel capolavoro, conosco a memoria molti dei dialoghi di quell’opera. Avrò davanti la cineasta che secondo me ha creato il capolavoro più grande della storia del cinema. Mi emoziono solo a pensarci.
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