Se avete una tv in casa lo avrete visto sicuramente facendo zapping tra i vari canali. Originario di Foggia, ma a Roma dai tempi delle lezioni al Centro Sperimentale, Gianmarco Saurino ha solo trentuno anni, ma già un curriculum fittissimo nella serialità italiana.
Volto delle prime stagioni di Che Dio Ci Aiuti, col suo personaggio di Lorenzo Lazzarini morto nella terza stagione di Doc – Nelle tue mani, l’attore è pronto a lavorare con i grandi maestri, mentre porta avanti la sua visione politica facendo teatro, come dimostra Rotte – Storie e Migrazioni per la regia di Mauro Lamanna andato in scena nel 2022.
Al momento, però, lo aspetta la seconda stagione di La legge di Lidia Poët su Netflix, al fianco di Matilda De Angeles e Eduardo Scarpetta, e dal 6 luglio sarà protagonista su Prime Video della commedia L’estate più calda. Anche se lui, i film romantici, non li guarda per niente. Però, almeno, è fan di Fleabag.
Esattamente un anno fa aveva detto che non le scocciava parlare ancora di Doc – Nelle tue mani perché era sicuro che prima o poi la gente se ne sarebbe stancata. Lo ha fatto? Non le domandano più di Doc?
No. Zero. Per niente. Il problema sono le repliche. Il fatto è che la serie torna periodicamente in onda, quindi è come stare continuamente sotto la lente d’ingrandimento. La gente continua a dirmi quanto ha pianto per la morte del mio personaggio, il che è una cosa stupenda, ma pensavo sarebbe finita prima.
Quando le è stato chiesto il motivo dell’abbandono di Doc ha risposto che non voleva rimanere incastrato in una serialità “troppo lunga”. Ora, però, la vedremo nella seconda stagione de La legge di Lidia Poët. Non è una contraddizione?
In realtà no. Nel caso di Doc avevo bisogno di uscire da un progetto in cui pensavo di aver già dato tutto. Ero sincero quando credevo che non avrei fatto altre serie per un po’ di tempo. Ma le contraddizioni si creano quando il tuo volere si scontra con le proposte che si presentano. All’inizio dell’anno ho lavorato in Per Elisa, fiction sul caso di cronaca vera riguardo la scomparsa di Elisa Claps. Interpreto il fratello Gildo Claps, e per me era la prima volta come protagonista assoluto. Anche quando ho finito di girare Per Elisa mi ero detto che mi sarei fermato con la serialità almeno per un anno.
Subito dopo è arrivata La legge di Lidia Poët. Che poi, se vogliamo, è una questione di durata. Girare Doc – Nelle tue mani significa essere sullo stesso set per otto mesi, prima ancora Che Dio Ci Aiuti ne durava nove. Per Per Elisa abbiamo lavorato invece tredici settimane, per La legge di Lidia Poët gireremo quattro mesi, il che è la metà del tempo in cui ero impegnato prima. Quindi continuo a fare serie, sono le lunghezze che sono nuove. E, diciamolo, sono le storie a vincere sempre. Non posso rinunciare a un bel racconto.
Per La legge di Lidia Poët si confronterà anche con un’ambientazione in costume. Le era mai capitato?
Non avevo mai recitato in costume. Fa molto caldo, devo dire. Luglio, a Torino, in costume. Davvero molto caldo. Scherzi – e calore – a parte, il costumista Stefano Ciammitti è bravissimo e sta facendo in modo sia di non farci morire sotto al sole, sia di ideare degli abiti che siano originali e differenti rispetto a quelli visti nella prima stagione. Nonostante non sia facile portare giacche, gilet e camice a maniche lunghe con trentacinque gradi all’ombra, i costumi restituiscono l’estetica tutta nuova che rincorre la serie.
Com’è entrare a far parte di un trio composto dai talenti Matilda De Angelis e Eduardo Scarpetta?
Stimolante. Sono due delle stelle più grandi del nuovo panorama italiano. È bello mettere a confronto le nostre esperienze, il far conciliare insieme tre percorsi agli opposti, che confluiscono tutti in Le legge di Lidia Poët. Sono passati dieci anni da quando andavo al centro sperimentale con Eduardo, c’è un non so che di magico nel trovarsi insieme sul set.
Scarpetta fa molto teatro. Anche lei ha una lunga carriera sui palcoscenici. Pensa venga messa un po’ in ombra dal suo lavoro in tv? La gente sa che può trovarla anche lì?
Secondo me sì. Tutte le volte che ho fatto uno spettacolo la cosa più figa, e che continua a sconvolgermi, è che il teatro fosse sempre pieno. Che fossi a Piacenza, a Lampedusa o a Perugia. È probabile che la gente che veniva mi aveva visto in programmi più popolari come quelli in tv, ma anche spettacoli come L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo fanno parte di me, del mio lavoro, di quello che faccio. Ed è ciò che mi mette in comunicazione con il pubblico. La gente crede di conoscerti perché ti segue sui social, ma non sa niente. È il teatro che crea una connessione.
Gianmarco Saurino, il teatro politico e la televisione commerciale
Ha detto “programmi più popolari”. Quindi sente la differenza tra ciò che fa in televisione e ciò che mette in scena a teatro.
Sì, ma è proprio in questa differenza che trovo la mia libertà. La rivendico e voglio sentirmi libero. È la qualità e la fortuna del mestiere che faccio. A trent’anni ho voglia di capire cosa mi piace, cosa non mi piace, di fare quello che voglio fare e tralasciare ciò che non voglio fare. Non voglio precludermi nulla a causa di pregiudizi, di blocchi mentali o intellettuali. Desidero tentare quanto più possibile.
Basta guardare L’estate più calda (prossimo film in uscita il 6 luglio su Prime Video, ndr.), dodici anni fa non avrei mai pensato di fare una commedia romantica. Ma è il gusto del poter e saper cambiare idea che mi diverte, non dare per scontato niente. Non sopporto le persone che dicono “Non mi piacciono le cozze” e non le hanno mai mangiate. È lo stesso con quello che faccio. Il teatro in particolare, poi, mi dà la possibilità di portare la mia visione politica in quanto attore.
Solo sul palco?
Al netto della tv e del cinema, sì. Sul piccolo e grande schermo si tratta di accettare progetti che, sostanzialmente, vengono proposti sempre da altre persone, è la visione del regista e devi sperare che coincida con la tua. Si potrebbero contare sulle dita di una mano il numero di attori che hanno scelto di poter portare una propria bandiera all’interno di un’opera cinematografica o televisiva. Era una cosa che succedeva quaranta o sessant’anni fa.
A meno che non fai Esterno Notte.
Esatto, anche se lì significa interpretare un politico. Parlo proprio di portare avanti degli ideali. Personalmente sento di averlo fatto con Maschile singolare, una commedia sulla comunità LGBTQIA+ che porta avanti la lotta per i diritti civili senza parlare direttamente di diritti civili, ma raccontando di una società in cui le persone sono libere di potersi mettere insieme, lottare, scopare in giro in totale libertà senza aver bisogno di lottare.
Quindi si è buttato a capofitto in Maschile singolare?
Certamente, perché? Avrei dovuto avere paura? Di cosa? Che le persone potevano domandarsi se fossi omosessuale o eterosessuale? È una domanda che non mi sono fatto perché è una domanda che non esiste.
Tornando indietro, possiamo chiedere: ha preferenze tra Rai e Netflix?
No. Puoi scriverlo a chiare lettere. Assolutamente no. Trovo assurde alcune reazioni, diverse a prescindere dal contenitore di cui si parla, non guardando alla specificità dei prodotti.
Inoltre Che Dio Ci Aiuti e Doc – Nelle tue mani sono stati il ponte per l’internazionalità di Netflix.
In verità era già cominciata con Doc. Non immagini quanti commenti mi sono arrivati dal Brasile o dall’Argentina. È una delle serie italiane più viste al mondo. Certo che pensare a Netflix, al fatto che in un giorno specifico alla stessa ora il tuo lavoro sarà visibile in centonovanta paesi, fa un certo effetto. Ma non posso dimenticare i due mesi in cui ho ricevuto in continuazione dei messaggi dal Giappone. Peccato che non mi sono mai potuto vedere doppiato, non ho mai trovato dei video.
Ne La legge di Lidia Poët invece è un procuratore che sosterrà la protagonista nel proprio lavoro. Pensa che nel suo quotidiano di attore sia importante sostenere storie che possano supportare il punto di vista femminile?
Le vicende di Lidia Poët mi hanno interessato fin dal principio e trovo che la bellezza del mio personaggio sia proprio nel suo essere un illuminato rispetto al periodo storico in cui si trova, in cui vigono certe convenzioni sociali. Perché se in quegli anni un professore diceva che le donne erano impulsive e l’impulsività determinava il sesso debole, era difficile saper reagire cercando di mantenere intatta la propria dignità. Il mio personaggio vive questo dualismo, voler mantenere una propria credibilità, ma con la possibilità di spostare le asticelle in avanti.
E all’interno dell’industria le cose sono cambiate?
Credo che, in questi termini, il vero cambiamento debba venire dall’alto, da chi scrive e soprattutto produce. Poi per me va benissimo stare accanto, dietro, davanti, di lato a qualsiasi protagonista. Penso che nella serialità siano comparsi sempre più personaggi femminili di rilievo, forse meno nel cinema. Credo che qualcosa sia cambiato e questo dà speranza.
Riprendiamo Maschile singolare. Il film era diretto da Matteo Pilati e Alessandro Guida. Per L’estate più calda, dal 6 luglio su Prime Video, torna a recitare per Pilati. Si è creato un rapporto di fiducia?
Ho fatto L’estate più calda perché c’era lui, altrimenti non avrei accettato. Quando è arrivata la proposta per me era un anno strano. Ero determinato a dare un cambiamento alla mia vita e carriera. Anzi, diciamocelo, non avevo voglia di fare niente. Poi è arrivato L’estate più calda, aveva senso per me nel mio percorso artistico destreggiarmi con una commedia simile, lo trovavo divertente.
Si trattava di mettersi alla prova, non mi sarei mai visto impegnato in una rom-com. Questa poi ha una connotazione particolare, con un protagonista che cerca di fare il prete, anche se in una connotazione diversa da quella già vista. Era un’idea che mi attizzava. L’idea di lavorare con Matteo, inoltre, era stupenda, è una persona genuina, creativa, collaborativa e queste sono caratteristiche impagabili.
Quindi scusi, non le piacciono le commedie romantiche?
No. Ma lo so, è colpa mia, non sono una persona interessante. Con questo non voglio dire che proporrei di vedere solo film come La corazzata Potëmkin. Forse, in verità, è che non mi sono mai imbattuto nelle pellicole giuste. L’unica di cui ho ricordo è 500 giorni insieme. Una commedia tristissima, ho pianto malissimo.
Infatti non proprio la tipica rom-com, ecco.
Esattamente. Che poi io sono estremamente romantico. Forse è per questo.
La calda estate di Saurino, da Fleabag e Prime Video
Ha parlato del personaggio di Nicola ne L’estate più calda e della sua vocazione. Suo zio era prete e lei ha dichiarato di aver cominciato a recitare scoprendo anche il suo lato da attore. Si è ispirato a lui per il film?
Spero di no, lui era un prete serio. Aveva quel tipo di vocazione ammirevole e commovente. Nicola, invece, è un ragazzo che cambia idea, che è ciò che più mi affascina delle persone. Il non tatuarsi dogmi o convinzioni senza darsi la possibilità di vederle ribaltate. Ne L’estate più calda il personaggio è sicuro della strada che vuole intraprendere, è ancora giovane e si domanda se sta seguendo la strada giusta.
Ma la cosa che era importante per me, e che spero possa trasparire dalla commedia, è che la questione su cui si fondano i dubbi di Nicola non sia semplicemente andare al letto o no con una persona perché c’è scritto che non si fa, ma perché io amo qualcun altro. È quello che avviene in tutte le relazioni. Non tradisci non perché non ti sei mai infatuato di un’altra persona, ma perché ce n’è una nella tua vita a cui sei legato. Solo che, in questo caso, è Dio. Questo rende il tema del film universale. È l’amore che è qualcosa di sacro.
Un ruolo completamente diverso da quello di Luca in Maschile singolare, diciamolo.
La mia vita è tutto un aggrovigliarsi di connessioni e contraddizioni. Ho appena finito di girare una serie in cui interpreto Gildo Claps e bestemmio contro la Chiesa cattolica mentre qui sono un aspirante prete. È la bellezza di questo mestiere.
Non amerà le commedie romantiche, spero però che Fleabag l’abbia vista, anche perché il collegamento con l’hot priest di Andrew Scott è immediato.
È un capolavoro. Fleabag è stata la fonte di ogni mio riferimento. Peccato che Matteo Pilati mi continuava a ripetere di non strafare, perché non ne stavamo facendo il remake italiano. Fleabag è scritta da una dea (Phoebe Walter-Bridge, ndr.) e Andrew Scott è tra i più grandi attori esistenti. È dalla serie che ho preso la questione dell’innamoramento, ispirandomi al discorso finale della seconda stagione. Poi nel film si può percepire o meno, ma è la maniera con cui mi ci sono approcciato. Poi da qualsiasi paragone non potremmo che uscirne solo che malmenati, ma ben venga.
Una lunga carriera nella serialità, ma ancora pochi film. C’è l’intenzione di buttarsi di più nel cinema?
Sì. È l’obiettivo dei prossimi anni. Sono abbastanza convinto che qualcosa arriverà, non so ancora in che forma. Se mi chiedessero ora cosa vorrei fare, risponderei che vorrei lavorare con un grande maestro, con un’importante visione di cinema. È il mio obiettivo a breve termine.
Ci sono stati alcuni incontri?
Ci sono stati, ma vedremo. C’è del nuovo che sono pronto a esplorare. Per adesso mi tengo pronto e in allenamento, perché quando accadrà voglio arrivarci preparato.
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