Giorgio Colangeli, le mille facce del dolore, della rabbia, di vite dolenti. Un attore che ha lavorato con Sorrentino, Vicari e Scola, ma che con un esordiente come. Alessandro Angelini che lo volle ne L’aria salata ha trovato la fama, il riconoscimento cinematografico (e tardivo) del suo talento e una nuova carriera, (ri)cominciata con un David di Donatello come miglior non protagonista. Perché lui è uno così bravo e versatile che sì, gli bastano poche pose per cambiare il destino di un film, per lasciare la sua impronta. Il Sor Ottorino in C’è ancora domani è uno dei visi, dei corpi di una galleria infinita di personaggi e anime (spesso in pena) che ci ricorderemo per battute fulminanti e una centralità emotiva e narrativa dentro un piccolo capolavoro.
Perché quest’attore dal viso così espressivo e allo stesso tempo camaleontico – può essere un buon diavolo come un cinico usuraio con la stessa credibilità – ha una generosità creativa e attoriale rara, un desiderio costante di mettersi al servizio delle storie: “lo dico spesso ai più giovani, non appoggiatevi alla mia esperienza, ogni film è un primo viaggio per tutti noi”. Per dire, trovate un over 70, in tutto il mondo, che ha il coraggio di fare un film come Mindemic di Giovanni Basso, una delle opere più sperimentali, più audaci nel linguaggio e più complesse per un protagonista che si siano viste negli ultimi anni. “Amo le situazioni estreme nel mio lavoro, almeno quanto le fuggo nella vita!”. E meno male.
C’è ancora domani ormai è un caso, anche per merito suo
Ma no, è tutto merito di Paola, che qui aveva una difficoltà in più: la sua riconoscibilità, la sua maschera che può essere invadente nell’immaginario collettivo. Ma ha saputo creare un contesto, una cifra stilistica ed estetica tale che tutto sembra andare al proprio posto con naturalezza nel film.
Le ha dato un personaggio quasi da film di Ettore Scola, con battute ferocissime
Guarda, intanto mi ha fatto piacere che lei avesse pensato a me già scrivendo, me lo ha detto quando ci siamo sentiti la prima volta. Ammetto che non c’è stato da studiare oltre il testo, tanto era preciso e puntiuale: lei voleva il mio personaggio così, sopra le righe, che potesse percorrere un espressionismo da favola, dovevo essere un orco vero.
Può sembrare un personaggio bidimensionale, ma ho fatto bene a fidarmi di lei perché sul set lei ha dato al mio ruolo le sfumature giuste per chi vuole vederle. Lo ha fatto con garbo, gentilezza e decisione, qualità che sono state una costante di tutta la lavorazione. Ha le idee chiare e sa come ottenere ciò che vuole, in modo inusuale per chi è all’opera prima.
Il suo è un orco ma anche la voce di una coscienza sporca. È l’unico che dice la verità
Talmente tanto da sembrare, per paradosso, persino un antifascista, perché per lui la violenza è un abito naturale, neanche se ne accorge di esercitarla, di predicarla. La violenza per lui non è neanche un’intenzione, è un riflesso pavloviano. Infatti Paola in C’è ancora domani non colpevolizza un uomo, ma antropologicamente analizza un contesto che produce una prevaricazione costante ed endemica, una costante aggressione nei confronti della donna.
Lui è un simbolo, lo specchio di una società e di un’epoca, tanto è vero che persino quello che fa il signore o il ragazzo innamorato hanno la stessa testa, le sue stesse attitudini.
Ora è diverso?
No. Perché il maschilismo non è una questione di classe o cultura, anzi, l’unico che nel film rispetta la moglie è un fruttivendolo. E vogliamo dircelo? Sono cambiate le apparenze, il linguaggio, la posizione lavorativa delle donne – non quella salariale, dove c’è ancora troppa disparità – ma nella famiglia, nel rapporto di coppia non è cambiato molto.
Questo perché sull’educazione, che è il vero antidoto a questa malattia sociale, non si è fatto molto. È un processo molto più profondo e lungo, ci vorrà ancora tempo e non bisogna avere paura dei tempi lunghi, bisogna agire nella scuola, nella formazione sentimentale e culturale dei figli, con una prospettiva di lungo termine, bisogna rassegnarsi al fatto che non si risolve con gli slogan, con gli asterischi o altri segni grafici, ma con i fatti e cambiando le teste.
Mi sta dicendo che negli ultimi 77 anni non è cambiato nulla?
Da quei tempi molte cose sono migliorate, ma manca un ultimo lunghissimo miglio. Ed è il più difficile, perché ora tutto sembra a posto e in realtà nulla lo è, basta vedere solo quante donne muoiono per mano di uomini o quanti abusi, aggressioni avvengano a partire dai nuclei familiari. Questo non è un film femminista, ma civile: ci ricorda, ad esempio, che il voto è una presa di coscienza, uno strumento di cambiamento e affermazione, un’assunzione di responsabilità e lo fa nel momento in cui questo mezzo democratico ha perso decisamente smalto, in cui tutti noi ne sottovalutiamo l’importanza. E non dovremmo, è costato tanto, a molti.
A Roma lei ha avuto un altro film, molto bello e interessante, Dall’alto di una fredda torre, peraltro con un cast incredibile: tra gli altri Edoardo Pesce, Barbara Ronchi, Elena Radonicich, Vanessa Scalera, Anna Bonaiuto.
Francesco Frangipane, che ha portato questo testo a teatro e ora al cinema, ha dimestichezza con questi temi così controversi. In un’opera precedente un aspirante suicida dichiarava alla famiglia la propria intenzione, qui c’è una malattia e due persone che non sanno nulla e altre due che devono prendere una decisione terribile, inerente la vita e la morte, da consegnare, entrambe, alle persone più importanti delle loro esistenze.
Io credo che la sua genialità stia nel fatto che il centro del film, la scelta su chi debba vivere o morire, sia di fatto solo un espediente, una situazione narrativa creata proprio per descrivere una famiglia alle prese con qualche cosa di estremo e che squassa profondamente i rapporti ed esige una verità insopportabile, una revisione della quotidianità talmente rigorosa e drastica da mettere a rischio qualunque tipo di equilibrio e di convivenza che si sia riuscito in qualche modo a mettere insieme.
Come sceglie i ruoli Giorgio Colangeli? L’impressione è che cerchi sempre personaggi estremi, che la mettano in difficoltà
A me piacciono un po’ le situazioni critiche, le fuggo nella vita e quindi compenso andandomele a cercare nel lavoro dove è tutto finto e dove però la simulazione come sempre ha anche un valore terapeutico. Vivendo certe situazioni estreme, mi libero da paure, anche da riserve, da blocchi che ho nella vita, dove cerco serenità e tranquillità.
Non credo sia il senso di colpa a spingermi quanto quello spirito sessantottino che sopravvive in me e mi suggerisce, mi impone di essere all’altezza, di essere impegnato, di fare qualche cosa per capire meglio il mondo, di provare a raccontarlo anche per migliorarlo come forse sta accadendo con l’opera di Paola che consegnerà maggiore consapevolezza a tante donne.
Ho evitato di diventare insegnante o medico nella vita per le enormi responsabilità che figure così hanno, pur affascinandomi come lavori: e allora almeno sul set, sul palco, provo a vivere un pezzo di quelle esistenze che mi sono negato nella vita. Per rappresentazione, non solo per simulazione.
Lei probabilmente è l’attore italiano che ha lavorato di più con esordienti. Un caso o una volontà precisa?
Entrambe le cose. È successo, succede un po’ per scelta, un po’ perché non molti registi famosi mi hanno chiamato a lavorare con loro, non è che ho rifiutato di lavorare con cineasti di nome, sarà una questione anche anagrafica. La verità è che sono arrivato alla visibilità già piuttosto maturo e un po’ alcuni personaggi mi erano preclusi, un po’ molti mi vedono come un attore strutturato, con un suo profilo e spesso il regista preferisce lavorare da zero sull’interprete, magari chi ha una sua carriera, una sua visione, un suo percorso può far paura.
Dall’altra parte gli esordienti hanno una disponibilità alla collaborazione con gli attori e un entusiasmo unici. Ora andrà a Torino Castelrotto in cui Damiano Giacomelli, con cui ho girato nelle Marche due anni fa, ha fatto un lavoro davvero bello, in cui credo molto. Mi sono speso tanto per interpretare Ottone, un maestro elementare ormai in pensione, già giornalista per testate locali, una persona impegnata socialmente, che si trova nella possibilità di sanare un’ingiustizia, perpetrandone però un’altra.
Non ti dico molto altra perché la trama è un po’ complicata, è un film che cerca anche di fare l’occhialino al genere, c’è un omicidio, un’indagine che porto avanti proprio io, un pretesto per osservare, sezionare quella realtà di provincia che conosciamo poco e che è invece metafora di qualunque tipo di comunità, di relazione umana.
Ecco, se penso a Damiano, mi rendo anche conto che sono più liberi gli esordienti, di testa soprattutto, hanno meno sovrastrutture. E poi hanno tutto da guadagnare dalla tua esperienza, dal tuo volerti mettere in gioco, non temono di perdere qualcosa e quando non c’è questo timore, sei sempre più aperto.
E se ora suonasse il suo telefono e fosse un grande autore che la volesse in un suo film, chi vorrebbe che fosse?
Un nome è troppo poco. Ne provo quattro: Marco Bellocchio, con cui c’è anche stata qualche chiacchierata, quei provini particolari che fa lui non su parte, ma che sono più un’indagine psicologica, Nanni Moretti, Matteo Garrone e Paolo Virzì che secondo me come Paola Cortellesi potrebbe tirare fuori il mio lato tragicomico.
Comunque c’è ancora tempo, no? Pensa a Marco Bellocchio, che ha ritrovato una giovinezza espressiva brillante e molto prolifica. Se c’è una cosa che mi ha insegnato il mio lavoro è che non è mai troppo tardi. Anzi.
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