Anche se non si può parlare esattamente di un “dio”, nella Barbie di Greta Gerwig (a meno che non si consideri divina la voce della narratrice onnisciente di Helen Mirren), la regista si confronta evidentemente con il mito della creazione.
Barbieland, un universo parallelo popolato da iterazioni infinite della bambola Mattel, è il suo territorio. Il vasto repertorio di bambole, una miniera di prodotti di successo, idee mediocri e campioni fuori produzione, sono gli strumenti della sua indagine. Gerwig gioca con la ricchezza e la particolarità della materia in questa intelligente rivisitazione delle Barbie, riuscendo a inserirsi con abilità nei confini di un film “brandizzato”.
Barbie è animato da battute – a volte irresistibili, sempre degne di nota – che prendono in giro la Mattel, sottolineando tutti i nonsense nella storia della bambola e mettendo in luce le contraddizioni di una società caparbiamente sessista. Con Gerwig si gode nei dettagli. La sua Barbieland – il design è di Sarah Greenwood, i costumi di Jacqueline Durran – è un febbricitante sogno rosa. Un tripudio di magenta e blush con la colonna sonora funky di Mark Ronson e Andrew Wyatt e gli inni bubblegum di Dua Lipa, Nicki Minaj e Ice Spice. Alberi di plastica e case da sogno su due piani fiancheggiano ogni viale di questo luogo in riva all’oceano. Le strade sono percorse da veicoli senza motore, anche se la gente si muove, preferibilmente, volando. Pensateci: avete mai visto una Barbie fare le scale?
Un esercito di Ken pattuglia le spiagge incontaminate del paese. Le bambole non sono in grado di salvare la gente che annega: se ne stanno in piedi per fare bella figura. Eppure, a fare i lavori che contano sono le Barbie: Barbie è il presidente ma anche tutti i membri della Corte Suprema. Barbie è un medico e un fisico. Barbie ha vinto tutti i premi Nobel e probabilmente ha trovato la cura per il cancro. Barbieland è l’utopia femminista come specchio inverso della nostra realtà patriarcale, come sottolineato dai commenti fuori campo di Mirren. Barbie è un’estensione della fantasia politica, è un esercizio di “what-if”. Barbie è andata nello spazio, ha potuto votare prima che molte donne (vere) ne avessero diritto. Anche il suo aspetto è cambiato, riflettendo i canoni di bellezza di ogni epoca storica.
Margot Robbie, Barbie Stereotipo
Gerwig dà vita al suo mondo rosa mettendo in scena una serie di bambole interpretate da un cast formidabile: Issa Rae, Emma Mackey, Alexandra Shipp e Hari Nef sono solo alcuni dei volti del film. Ma la protagonista indiscussa di questa commedia intelligente e divertente è la Barbie Stereotipata (Margot Robbie), la tipica bellona dai capelli biondi e gli occhi azzurri, uscita dall’immaginazione di Ruth Handler (la creatrice di Barbie, ndt). La sua controparte Ken è interpretata con slancio e leggerezza da un bravissimo Ryan Gosling (con Simu Liu, Kingsley Ben-Adir e John Cena tra gli altri Ken assortiti del film). La coppia è una versione di Eva e Adamo in cui Eva è la preferita di Dio. E Adamo il peccatore.
La loro caduta è altrettanto drammatica. Quando Barbie comincia ad accorgersi che la sua vita perfetta è turbata da dubbi esistenziali, cerca risposte da Weird Barbie (Kate McKinnon), una bambola che deve la sua reputazione di “saggia” alla sua storia traumatica (è un giocattolo “abusato”). Su consiglio della Barbie emarginata, Barbie Stereotipata si reca nella Los Angeles del mondo reale, con un Ken fin troppo impaziente al seguito, per ritrovare la sua bambina. Il rapporto tra le bambole e i loro proprietari umani è appena accennato: meglio non farsi troppi problemi su come funzioni il loro rapporto.
La California manda in frantumi l’ego di Barbie e amplifica quello di Ken. Di fronte al modo con cui il patriarcato si è imposto nel mondo “vero”, Barbie realizza che lei, e le altre bambole, vivono in un mondo a parte.
Gerwig inserisce riferimenti arguti al mondo reale durante gli incontri di Barbie con le persone reali: la dirigenza Mattel, composta da soli uomini (tra cui Will Ferrell che interpreta l’amministratore delegato); Sasha (Ariana Greenblatt), un’adolescente il cui disprezzo per le bambole Mattel è superato solo dal suo odio per il fascismo; e la madre di Sasha, Gloria (una brillante America Ferrera), segretaria della Mattel ciecamente dedita al lavoro.
Se ami Barbie, se odi Barbie
Chi temeva che il film avrebbe esaltato in modo acritico l’invenzione di Handler potrà tirare un respiro di sollievo. Barbie è all’altezza del suo slogan: “Se ami Barbie… se odi Barbie, questo film è per te”.
Riuscire in questa missione ha però un costo. C’è una certa dissonanza tra lo sforzo di Gerwig di rendere le bambole divertenti e il tentativo di armonizzare il materiale del film con la sua produzione precedente. Separata da Ken da un imprevisto, Barbie torna a casa pronta a immergersi nella sua routine. Ma il ritorno a casa è più triste di quanto si aspettasse, perché Ken, forte della scoperta del patriarcato, ha deciso di cambiare il volto di Barbielandia.
Il film evita di ripetere tematiche note (in particolare Life-Size, il tentativo della Disney dei primi anni ’80 di far interagire bambole con esseri umani) o di assecondare il brand, grazie all’intelligente sceneggiatura di Gerwig e Noah Baumbach, piena di battute irriverenti. Ma ai momenti di puro divertimento si alternano lunghi e pesanti monologhi, che finiscono con l’affievolire l’impatto del messaggio. Lo sforzo politico è nullo: un film nato su queste basi non può essere rivoluzionario.
Per certi versi, Barbie riprende i temi esplorati da Gerwig in Lady Bird e Piccole donne. Il film ha a che fare con la ricerca dell’identità e con le relazioni difficili tra madri e figlie. E si rivolge in modo interlocutorio alle donne, intrappolate da una società ossessionata dalle categorie.
La tensione tra Barbie come oggetto e soggetto si avverte soprattutto nell’interpretazione di Margot Robbie. L’accresciuta consapevolezza di Barbie traspare dagli occhi dell’attrice, sempre più appesantiti. Anche la sua presenza fisica ci dice qualcosa: Robbie si muove meccanicamente a Barbieland perché è un giocattolo, ma nel mondo reale è meno rigida? Un senso di inquietudine aleggia sull’intero film. Gerwig è riuscita a lasciare la sua firma, facendo emergere temi profondi da una struttura rigida in partenza, ma i sacrifici si sentono tutti. Il film, alla fine, è “servo” di un brand.
Il che non sarebbe così preoccupante, non fosse per le ambizioni di franchising della Mattel. Dopotutto, è sotto gli occhi di tutti: non possiamo certo farci dare lezioni di vita da un’azienda che produce giocattoli.
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