Se avete provato tenerezza per i tentativi di David Gordon Green di rianimare il franchise Halloween di John Carpenter, probabilmente avrete la stessa tentazione con L’esorcista: Believer, in cui Green si sforza di fare lo stesso con il classico sulla possessione demoniaca di William Friedkin. Ma se avete frequentato una scuola cattolica, e ricordate ancora il terrore provato guardando il cult del 1973, vivrete il nuovo film come una specie di truffa – e questo nonostante la possessione demoniaca tocchi stavolta non a una, ma a due innocenti ragazze.
Cosa che in teoria dovrebbe garantire il doppio della paura, come sembra promettere la prima ora di film, durante la quale Green mostra rispetto per la pellicola originale ignorando i vari sequel, i prequel e la serie televisiva Fox del 2016, decisamente trascurabile. La Universal ha sottolineato infatti che si tratta di un sequel “diretto”, da non confondere con un reboot.
Lavorando con il co-sceneggiatore Peter Sattler (Camp X-Ray) su una storia scritta dai veterani di Halloween Scott Teems e Danny McBride, Green si attiene al “format” di Friedkin sviluppando con pazienza storia e personaggi.
Montaggio intermittente e flash infernali a parte, l’impostazione del film si direbbe austera per un horror contemporaneo, diretta a creare un’atmosfera inquietante più che a travolgerci con il caos demoniaco. Ma una volta scalata la marcia, il film – primo capitolo di una prossima trilogia – scade in una familiare banalità, facendo leva su effetti già visti milioni di volte in casa Blumhouse. A differenza della trilogia di Green su Halloween, andata declinando un capitolo alla volta, Believer condensa la stessa traiettoria in un solo film, il primo.
La pellicola di Friedkin del 1973, che ha avuto un successo fenomenale, si è imposta come un cult dell’horror per vari motivi, non ultimo perché ha legittimato la serietà del genere, aumentandone l’intensità grazie all’idea di radicare gli elementi soprannaturali nelle credenze religiose e nelle turbolenze sociali di fine anni Sessanta.
Probabilmente il più grande errore di Green è quello di diluire l’importanza del cattolicesimo nella storia. Invece di attribuire la punizione degli spiriti impuri al dominio esclusivo del braccio oscuro del Vaticano, il film introduce santoni pentecostali, metodi di guarigione spirituale e la medicina popolare africana, oltre al potere della solidarietà di gruppo.
Informazioni fornite faticosamente allo spettatore da Ellen Burstyn, che torna per la prima volta nel ruolo che le valse una nomination all’Oscar nel 1974, quello di Chris MacNeill. Chris ha abbandonato la recitazione e un decennio dopo gli eventi del film originale è diventata un’esperta di possessioni demoniache. Ha pubblicato un bestseller, dal titolo “Le ragioni di una madre”, che ha causato l’allontanamento della figlia Regan, la cui giovane anima fu il campo di battaglia de L’esorcista.
Ma il destino riservato a Chris – e a giudicare dalla sconsiderata sicurezza con cui affronta uno degli adolescenti posseduti, forse, avrebbe potuto aspettarselo – è di una crudeltà tale da far pensare a un torture porn alla Saw o Hostel più che a L’esorcista. Chissà se Burstyn si stia chiedendo, adesso, se fosse stato meglio mantenere la distanza (dal progetto) e conservare la dignità.
La natura del bene e del male nel mondo moderno è invece al centro del tormento del personaggio di Ann Dowd: nel ruolo di un’infermiera di nome Ann, che vive col padre Victor Fielding (Leslie Odom Jr.), vedovo depresso, e la figlia tredicenne Angela (Lidya Jewett), Dowd ha un retroscena particolare. Era una suora novizia che ha abbandonato il convento e i voti, diventata esorcista per vocazione – cosa che regala all’attrice alcune notevoli, infuocate battute.
Il prologo, ambientato durante la luna di miele del fotografo Victor a Port-au-Prince, Haiti, si apre a sorpresa con l’immagine di un gruppo di cani che si azzuffano selvaggiamente sulla spiaggia, per seguire poi la moglie Sorenne (Tracey Graves) mentre viene convinta, nel mercato cittadino, a farsi benedire il pancione per proteggere il bambino che porta in grembo. Quando un terremoto riduce Sorenne in fin di vita, Victor è costretto all’impossibile scelta tra salvare la moglie o il figlio. La decisione, che si rivelerà diversa da quella apparente, tornerà a tormentarlo durante la febbrile apoteosi dell’esorcismo.
La storia riprende 13 anni dopo, con Victor e Angela che vivono in armonia in una piccola città della Georgia. Un giorno però Angela e la sua amica Katherine (Olivia O’Neill) si inoltrano nel bosco per evocare lo spirito della defunta madre di Angela. Ciò che evocano, però, supera di gran lunga le loro aspettative.
La cronaca dei tre giorni in cui le ragazze scompaiono nel nulla funziona, preparatoria alla tensione alimentata dalle crescenti paure di Victor e dei genitori di Katherine, Miranda (Jennifer Nettles) e Tony (Norbert Leo Butz).
L’attrito tra gli adulti è innescato dalle loro diverse convinzioni: Victor è ateo e i genitori di Katherine sono devoti pentecostali, il che rende il padre di Angela inizialmente diffidente, quando Miranda sospetta che l’aspetto emaciato e il comportamento violento della figlia siano chiari indizi di una possessione demoniaca. Ma la parallela trasformazione di Angela, sommata alle preoccupazioni del suo vicino di casa, induce Victor a imboccare la strada dell’esorcismo.
Per quanto Jewett e O’Neill facciano un buon lavoro, soprattutto nella sequenza del loro inquietante ritrovamento – le due vengono scoperte nel fienile di una fattoria, a 30 miglia dal loro ultimo avvistamento, senza alcun ricordo dei tre giorni precedenti – un paio di fattori chiave rendono la loro possessione meno efficace di quella della Regan di Linda Blair nell’originale.
Una ragazzina di 12 anni all’inizio degli anni ’70, almeno nei film, è molto più vulnerabile di due tredicenni nel 21° secolo. Regan aveva ancora i piedi ben piantati nell’infanzia, mentre Angela e Katherine sono ormai quasi adulte.
Ciò che rendeva il tormento fisico di Regan così agghiacciante era l’abisso tra la dolce ragazzina dalle guance arrossate e il demone roco con il volto livido e i capelli unti in cui si era trasformata, vomitando oscenità con la voce macabra di Mercedes McCambridge. (le trasformazioni di Angela e Katherine non sono meno impressionanti, ma la frequenza di giovani donne possedute sul grande schermo da L’esorcista in poi – in particolare nel J-horror – le rende altrettanto mostruose ma meno paurose).
Lo stesso vale per il repertorio di trucchetti un tempo terrificanti, dalla levitazione alle convulsioni violente fino al vomito pirotecnico: ogni nuovo momento di paura sembra semplicemente tendere all’esagerazione, invece che stupirci con idee originali. Il trucco e gli effetti sono raccapriccianti, ma troppo banali per essere davvero angosciante. Anche nel peggiore dei casi, le sataniche Angela e Katherine non sono poi così spaventose, soprattutto perché abbiamo già visto al cinema innumerevoli versioni di possessione in storie molto più originali di questa.
Il film inoltre non riesce a costruire credibilmente la loro amicizia. Ci si chiede cosa abbiano in comune la figlia di bianchi che criticano la Bibbia, a capo del gruppo giovanile della sua chiesa, e la ragazza di colore il cui padre è ateo – al di là delle esigenze di rappresentazione di una versione moderna del franchise.
Anche l’esorcismo stesso non è all’altezza della situazione. Al posto di una madre single impietrita dal terrore, la cui figlia è diventata un’orrenda aberrazione, e dei due preti rinchiusi nella sua gelida cameretta nel tentativo di scacciare il demone, questa volta c’è una folla di persone. Di cui solo un paio vengono sviluppate in profondità.
Oltre alla sempre affidabile Dowd, il punto di forza è Odom, che ce la mette tutta anche quando la sceneggiatura non lo meriterebbe. Nella stanza, dove Angela e Katherine sono legate alle sedie imbullonate al pavimento, ci sono anche gli angosciati Miranda e Tony, il loro pastore pentecostale (Raphael Sbarge), il guaritore rituale (Okwui Okpokwasili), un prete cattolico che sfida gli scettici anziani della diocesi (E.J. Bonilla) e un vicino di casa di Victor, (Danny McCarthy), che non ha alcuna utilità come personaggio eppure è sempre presente.
La quantità di gente in scena senza aver nulla da fare appesantisce quella che dovrebbe essere la sequenza più emozionante del film, “sgonfiando” il climax della possessione – nonostante il cameo a sorpresa di una figura importante della storia de L’esorcista e un accenno a conseguenze che si ripercuoteranno nel prossimo film.
Il direttore della fotografia Michael Simmonds, che ha realizzato la trilogia di Halloween di Green, regala a Believer un aspetto cupo, con molte scene notturne e un pallore malsano che dilaga man mano che la situazione si fa più difficile. Il montatore Tim Alverson mantiene l’azione costante, e riduce in modo ammirevole gli spaventi “comandati”. Le musiche di David Wingo e Amman Abbasi aumentano la tensione, anche se non c’è nulla che possa competere con l’efficacia di Tubular Bells di Mike Oldfield, che fa il suo gradito ritorno nei momenti chiave – ma in un nuovo remix che elimina le campane.
La versione annacquata dell’ispirato tema musicale horror è la metafora perfetta di un film che inizia in modo promettente, ma che si sgonfia man mano che la posta in gioco si alza. A sorprendere non è il fatto che Believer sia meno efficace del suo amato progenitore, ma che sia molto meno audace di un film realizzato mezzo secolo fa. E questo, sì, aggrava la delusione.
Traduzione di Pietro Cecioni
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