Nel 1982 Blade Runner aveva creato gli androidi. Nel 2017 Blade Runner 2049 aveva ipotizzato la loro possibilità di riprodursi. Nel 2023 The Creator mostra la loro capacità di crescere. Il film di Gareth Edwards, di ritorno al cinema dopo Rogue One: A Star Wars Story (2016), è l’insieme di un panorama che raccoglie al suo interno un immaginario in continua evoluzione, esattamente come accade alle IA nella pellicola.
Il loro svilupparsi in maniera costante, il farsi pari all’uomo e, nella gara evoluzionistica, addirittura superarlo, diventa una minaccia non più per la conquista della terra, così come la conosciamo, da parte delle macchine. Bensì la nascita di un’empatia e di un intero compartimento di sentimenti che le fa entrare in contatto con cosa vuol dire “umanità”, rendendole più umane dell’umano stesso.
Di The Creator c’è da considerare l’anno di scrittura del racconto. Era il 2018 quando Edwards, insieme al co-sceneggiatore Chris Weitz, ha ipotizzato un mondo in conflitto tra persone in carne ed ossa e “persone” fatte di tubicini e acciaio che, come quelli di Philip Dick, avevano però il viso e il corpo come qualsiasi altro – sui “robot” di Dick ci si domandava se sognassero pecore elettriche, su quelli di Edwards se da “spenti” andranno in Paradiso.
Ad allontanarli un’unica differenza: i simulat, così chiamati nel film, si distinguono dagli umani per la struttura metallica posizionata dietro la nuca, uno spazio “bucato” in cui risiedono i fili e i comandi della loro conoscenza (e coscienza). In The Creator gli androidi sono in tutto e per tutto rapportabili all’uomo; diversi dai robot ante litteram, presenti anche loro, che si vede a colpo d’occhio essere fatti di metallo e sguardo laser.
Cosa nasce dalla fantascienza
È da un embrione che arriva Alfie (Madeleine Yuna Voyles). Dal frutto più antico da cui tutti quanti provengono: l’amore. Alfie è la risposta alla domanda “Tu l’hai mai visto un miracolo?”, che viene posta a ripetizione in Blade Runner 2049 e a cui The Creator ha dato la sua risposta.
La bambina, arma di distruzione creata per vincere la guerra contro gli umani, non sarà la rappresentazione spontanea della nascita in quanto tale, ma è pur sempre l’insieme di due esistenze che si mischiano. È la fecondazione assistita, con l’aiuto della tecnologia a livello non medico, ma fantascientifico. Un passo più in avanti di quanto potremmo anche solo immaginare, e che riflette su chi genera e chi viene generato. Su come si fa e su come è possibile farlo. È per questo che Alfie è l’arma definitiva. È la contaminazione di specie che porta al progresso. O, c’è a chi verrebbe da dire, verso il perfezionamento.
E nel perfezionarsi sia nell’aspetto, che nelle movenze o nelle interazioni con l’altro, l’IA lo fa anche nel riprodurre l’ordinarietà dell’essere un individuo. Unico, distinto e pensante. Che non ragiona, però, come se fosse il solo, bensì sente di appartenere a una comunità, a una minoranza – seppur non così “minore” in termini di numeri e presenza sul pianeta ideato da The Creator. Un circolo minacciato e che, per questo, ha l’urgenza di proteggersi. Soprattutto quando viene accusato di aver scatenato l’apocalisse, colpa invece – paradossalmente – di un errore umano.
The Creator: le guerre dei genitori nel futuro dei figli
“Sai cosa accadrà quando vinceremo la guerra? Assolutamente niente”, dice Harun, dell’interprete Ken Watanabe, al protagonista Joshua, l’attore John David Washington. L’agente speciale è incaricato di trovare l’arma definitiva (Alfie), di prenderla, studiarla, ma anche di distruggerla. Mentre Nomad, astronave che sorvola i cieli scansionando la terra centimetro per centimetro, cerca le IA cacciate da ogni angolo del mondo e accolte solamente dalle Repubbliche della Nuova Asia.
Territori disposti a dare asilo ai simulat e in cui la bambina viene “concepita” e nascosta. Stragi di innocenti, paesi incontaminati punteggiati da abitanti rasi al suolo da Nomad soltanto perché in grado di guardare oltre – anzi, dentro – il “contenitore” rivestito di pelle sintetica.
E se Gareth Edwards ruba dall’immaginario di Tales from the Loop spostandosi geograficamente dall’Ohio rurale delle opere di Simon Stålenhag alla vegetazione del Nepal e della Thailandia, location in cui il film è stato girato, è la ferita ancora aperta (specialmente nel cinema statunitense) della guerra del Vietnam a riecheggiare nel conflitto tra simulat e umani. Tra gli indifesi decisi a difendersi, e i prevaricatori decisi a prevaricare – invece di fermarsi, pensare, ragionare.
Fantascienza e Storia si incontrano in The Creator, con un’aggiunta di serialità che va dalla somiglianza tra Alfie e il personaggio di Undici nella prima stagione di Stranger Things al legame che la bambina instaura con Joshua e che fa da eco a quello di Grogu e Mando in The Mandalorian. Un rapporto genitoriale – che poi anche Undici esplorerà nelle stagioni successive dei fratelli Duffer – focale nell’opera di Edwards.
È il “creatore” che dona nuova vita. È John David Washington che diventa il padre che non è mai stato dopo aver perso la moglie incinta. È il personaggio impersonato da Gemma Chan, che saprà comunque come lasciare nel mondo la propria eredità. È The Creator che, tra tutte, è l’opera tra le più derivative per il genere della fantascienza degli ultimi anni. Contenitore di tutti i padri e tutte le madri venuti prima. “Non potete battere l’IA. È l’evoluzione”. È l’aver disumanizzato le persone, trovando la salvezza per il futuro nel cuore degli androidi.
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