“Sapevo benissimo cosa volevo fare, soltanto che non avevo ancora il coraggio di dirlo pienamente. Fino a quando iniziai l’università e mi resi conto che stavo seduto al banco ma studiavo le scene per i corsi di recitazione. E mi sono detto: ‘Ma di che stiamo parlando?’”. Massimiliano Caiazzo, 27 anni, è quella che solitamente viene definita una bella testa. Mente veloce e parlantina fluida con qualche incursione di napoletano a dimostrazione della sua assoluta spontaneità.
L’attore di Mare fuori, attualmente impegnato nelle riprese di Storia della mia famiglia, film Netflix diretto da Claudio Cuppellini, è tra le voci protagoniste de I 400 Giorni – Funamboli e maestri, documentario prodotto dalla DO Cinema di Daniele Orazi presentato il 27 novembre nella sezione Ritratti e paesaggi del Torino Film Festival. Un racconto corale – realizzato con il patrocinio di Roma Lazio Film Commission ed il sostegno del ministero della cultura, dedicato al mestiere dell’attore, diretto da Emanuele Napolitano ed Emanuele Sana e scritto da Orazi con Vittoria Spaccapietra.
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Un casting on the road durato un anno in giro per l’Italia al seguito di ventiquattro aspiranti attori. Un esperimento intervallato da filmati e testimonianze dell’archivio storico Istituto Luce e della Cineteca di Bologna per un racconto che intreccia le testimonianze di Anna Foglietta e Virna Lisi, Sophia Loren e Luca Marinelli.
Nel documentario si parla di come durante un provino ci si giochi il futuro in cinque minuti. Si ricorda il primo che fece?
Sì, certo.
E come andò?
Paradossalmente molto bene. Era per Gomorra. Io ero ancora a Castellammare di Stabia, avevo 17/18 anni e frequentavo un corso diretto da Gianfelice Imparato. Era una scuola appena aperta e il dirigente mi disse: “Ci sono i casting di Gomorra. Vorrebbero venire a fare i provini da noi”. Lo feci e mi ricordo che quello era anche il periodo dei test per entrare all’università. Ne sostenni uno per una facoltà privata di medicina. Ovviamente non andò bene. Ma ricordo che, mentre ero frustratissimo in macchina, mi arrivo la telefonata per un call back.
E quindi se non avesse fatto l’attore sarebbe diventato medico?
Ma neanche morto (ride, ndr).
E perché fece il test per entrare a medicina?
Perché, perché, perché. Perché funziona così! (ride, ndr). Quando non sai cosa fare ti butti su medicina o economia. Io sapevo benissimo cosa volevo fare, soltanto che non avevo ancora il coraggio di dirlo pienamente. Fino a quando iniziai l’università e mi resi conto che stavo seduto al banco ma studiavo le scene per i corsi di recitazione. E mi sono detto: “Ma di che stiamo parlando?”.
E quando invece un provino non funziona, come si riparte da un “No”? Le è capitato anche dopo Mare Fuori?
Certo, è capitato. Anzi, ci sono stati più casi. Le prime volte è frustrante. Soprattutto se fai dei percorsi di formazione. Sei tentato di mettere in discussione tutto. Poi impari, anche grazie all’esperienza, che quel “No” non significa “Fai schifo” o “Fa schifo quello che hai portato”. È un “No” su determinati aspetti. Ma significa anche “Lavoriamo insieme”. Non a caso adoro la figura del casting director. È la prima persona alla quale puoi affidarti e affidare il tuo lavoro per realizzare qualcosa di nuovo che poi, forse, porterà alla creazione del personaggio. Diventa un lavorare insieme.
Nel documentario parla di responsabilità. C’è stato un momento in cui, oltre alla bellezza di quello che Mare fuori le ha regalato, ha vissuto il successo anche come un peso?
Sì. Perché a volte ci si dimentica che siamo dei ragazzi. Alcuni dei nostri colleghi sono appena maggiorenni, altri ancora minorenni. Abbiamo la fortuna di intercettare un pubblico molto trasversale, ampio. E può succedere che se lo dimenticano. Facciamo un lavoro che si basa sull’utilizzo del nostro corpo e delle nostre emozioni. Essendo giovani – e magari c’è anche chi è alle prime armi – non sempre riusciamo ad essere soddisfatti della nostra giornata lavorativa e quindi il nostro stato emotivo non è al 100%. Quelle sono giornate in cui vorresti stare da solo. Vorresti un attimo per ragionare. Ci sono stati sicuramente momenti difficili legati alla sfera privata e professionale. Però, almeno per quanto mi riguarda, questo non intacca il lavoro che c’è sul set.
Ha avuto percezione del momento in cui tutto è cambiato?
L’esplosione di Mare fuori è stata graduale. Tranne per la terza stagione, quando ormai il secondo capitolo era uscito su Netflix e quindi il pubblico si era triplicato. Ma all’inizio ero sul set di Uonderbois, la serie Disney che uscirà il prossimo anno di questi tempi. Ero impegnato con un altro lavoro e con un altro personaggio completamente diverso. Il set mi proteggeva, diventa quasi una comfort zone. Il vero problema è quando si esce fuori, quando tutti vogliono un pezzo di te.
E come ci si abitua, se ci si abitua, ad una cosa del genere?
Poi si sgonfia. È il primo momento, come nelle relazioni. All’inizio è tutta una novità (ride, ndr). Non è che ci si abitui, ma credo che lo si impari a gestire. Insieme alla tua squadra. Capisci che ci sono delle persone che giocano con te, che condividono i tuoi obiettivi. Quando sei troppo giù ti tirano su e quando stai per andare troppo sù ti riportano giù. I migliori maestri, involontariamente, ti formano anche per questo. Si fa un lavoro su se stessi che aiuta a levare quella nebbia che potrebbe non farti vedere bene. Quindi sì, c’è un periodo di scossone. Poi però ti rendi conto, provando a gestire questa cosa dentro e fuori di te, che hai gli strumenti per vederci meglio.
Ha rischiato di “andare troppo su”, di montarsi la testa?
No. Credo di essere riuscito a mantenere un equilibrio. Anche se questa forse è una domanda che bisognerebbe fare più alle persone che lavorano con me (ride, ndr). Per quanto mi riguarda, mi ritengo una persona abbastanza aperta a certi tipi di cose. L’unica che mi fa perdere la testa è quando non mi fanno giocare al mio gioco preferito. Ho scelto questo mestiere perché mi piace approcciarlo come se fosse un gioco molto serio. Nel momento in cui certe cose dovessero impedirlo, mi incazzo.
È mai capitato che un collega più grande le desse un consiglio?
Sì. Ma in realtà sono io che chiedo. Sono quello che fa 30 mila domande. Sia per come gestire una cosa del genere sia dal punto di vista attoriale. Per esempio in questo periodo sto lavorando con un cast allucinante, mi sono sentito uno scricciolo. Ed è giusto così. È una cosa che mi piace, mi sprona. Faccio continuamente domande a Claudio Cuppellini e a Cristiana Dell’Anna. Così come quando ero sul set di Uonderbois facevo continuamente domande a Francesco Di Leva, Giovanni Esposito, Antonia Trouppo e Lello Arena. È come se avessi di fronte a me i giocatori della prima squadra e volessi rubare da loro. “Come hai gestito questo? Hai mai lavorato in questa direzione? Utilizzi questo metodo?”. Ho iniziato la mia formazione facendo così.
Soffre della sindrome dell’impostore ogni tanto?
In continuazione. Se parla con Ivan Silvestrini, il regista di Mare fuori, le dirà che lo metto in croce. Probabilmente una parte di lui mi odia perché in continuazione gli chiedo: “Ma sei sicuro che questa cosa andasse bene?” (ride, ndr). Con Ivan ovviamente c’è un rapporto diverso. Con Nicola Prosatore, il regista di Piano Piano, la stessa cosa. E lì ho incontrato una persona ossessiva forse quanto me. Quando facevo queste domande c’era davanti a me una persona che le accoglieva e diceva: “Ok, proviamo di nuovo”. Con Claudio Cuppellini anche. È un altro regista molto preciso. E quella precisione la ricerca anche in scena. Mare Fuori 3, la stagione che più delle altre ha fatto esplodere il mio personaggio, è anche quella in cui ho avuto più dubbi. Tornavo a casa ogni giorno e dicevo: “Ma che sto combinando?”.
L’idea di poter condividere questo momento con un gruppo di persone ha arricchito l’esperienza?
Non ti fa sentire solo. Per la nostra generazione è un buon momento rispetto al sistema cinematografico. Sono tanti i progetti che danno la possibilità ai ragazzi di mettersi in luce, di lavorare. E questo spinge al confronto, all’incontro. Anche al di là di Mare fuori. Penso a progetti come Tutto chiede salvezza o Nudes.
In questi mesi le è mai capitato che qualche giovane aspirante attore le confessasse di vederla come un modello?
Mi spiazza. Perché alla fine ho fatto tre film.
Ha mai visto le parodie che fanno su TikTok di Carmine e Mare fuori?
Non ho un account su TikTok. Ma ogni tanto mio fratello mi manda qualche video. Quelle in cui si strofinano sui muri mi fanno morire. Anche quello secondo me è il sintomo del fatto che la serie è arrivata ovunque.
Secondo lei cos’è che fa un attore?
La definizione di recitazione è ricitare. Io non sono d’accordo con questa cosa. Aderisco di più alla definizione del giocatore. Dal mio punto di vista il senso vero è il gioco. Poi, secondo, me devi essere consapevole di essere umano, di avere delle mancanze, dei bisogni, dei comportamenti attraverso i quali ogni tanto ti boicotti, anche se sei una persona risolta . E vivi attraverso di essi, nelle luci e nelle ombre. Un attore porta questo in vita con la differenza che i personaggi in due ore combattono attraverso i loro bisogni, per raggiungere degli obiettivi, il proprio sogno. A volte ci riescono, a volte no. Non è quello l’importante. Ma vedere un essere umano che, nonostante tutto, ci prova. Questo dà speranza e credo sia il motivo per cui ci innamoriamo dei film, dei personaggi e degli attori.
Ha parlato dei consigli che chiede ai colleghi sul set. Ma le capita mai di rubare dalla troupe?
Sì, perché magari incontri persone che hanno lavorato con grandi artisti e quindi chiedi loro: “Com’è questo? E com’è quest’altro? Cosa faceva questo? E quest’altro?”. Su Mare fuori c’era Filippo, un attrezzista che ha lavorato su Martin Eden di Pietro Marcello, un film che ho amato profondamente. Gli avrò rotto le scatole per dieci giorni di fila a fargli domande su Luca Marinelli. “Ma che fa lui prima di entrare in scena? Ma per caso l’hai visto fare questo? O quest’altro” (ride, ndr).
Come vive l’attesa tra un provino e la risposta?
Credo di aver imparato, anzi, spero di aver imparato a vivere questo lavoro non soltanto quando sei sul set o in una stanza a fare un provino. Quindi lo fai tutti i giorni. Ti alzi alle otto di mattina e ti impegni sui vari punti sui quali hai scelto di lavorare. Il provino è un momento del tuo lavoro. L’attesa la vivo lavorando, come gli atleti. È ovvio che quel giorno fa la gara ma gli altri giorni si allena per gareggiare.
Dopo Mare fuori le saranno arrivate tantissime proposte. Come si fa a scegliere? Come si legge una sceneggiatura? È spinto dall’istinto, si confronta con le persone con le quali lavora?
Entrambe le cose. Sicuramente c’è una buona parte che si affida all’istinto. È una cosa che mi piace fare perché quando l’ho fatta sono successe delle belle cose. Però a volte non basta, non riesci subito ad intercettare la volontà del cuore. Ho dei principi attraverso i quali seleziono i progetti da sposare e i personaggi da interpretare. Considero il mio tempo molto prezioso, tengo tantissimo alla mia famiglia, alle persone a cui voglio bene. È una cosa che mi ispira. E poi sicuramente mi confronto con i miei colleghi e gli amici di sempre, anche se fanno tutt’altro. Ovviamente una parte fondamentale la fa quello che leggo.
Ci sono state due proiezioni alla Festa del Cinema dei primi due episodi di Mare fuori 4. Lei era in una delle sale con il pubblico. Com’è stato?
Allucinante, perché ti rendi conto di come reagisce, dell’effetto che ha avuto questo progetto sulle persone.
Hai paura di rimanere associato al personaggio di Carmine?
Sicuramente c’è stato un momento in cui ho avuto questa paura, sì. Così come quella di essere etichettato come attore napoletano e basta. Quando invece mi piace lavorare con la voce, cambiare la musicalità, il tono, approcciare ad altre lingue. Però poi, a un certo punto, uno si guarda allo specchio e decide di vivere questo mestiere in un certo modo. Quando arriveranno altri personaggi potrò dimostrare o meno di saper fare altro. E poi quelli che ho fatto fino ad oggi in concomitanza con Mare fuori, sono tutti personaggi diversi tra loro. Ho notato che il pubblico lo ha riconosciuto. La gente è venuta in sala a vedere Piano piano ed è uscita contentissima riconoscendomi il lavoro fatto. Stessa cosa per Filumena Marturano.
E poi mi sono detto: “Massimiliano, volente o nolente tu sei un attore napoletano”. E oggi per la città è un periodo d’oro dove su 10 produzioni 7-8 sono a Napoli. Quando mi chiederanno di fare un personaggio in emiliano, siciliano o calabrese e mi metteranno nelle condizioni di poterlo fare, avrò la possibilità di dimostrare che posso fare anche altro, come feci con School of Mafia dove, anche se era un piccolo ruolo, ho avuto la possibilità di recitare in siciliano. Anche questo ha a che fare con il rimanere con i piedi per terra. Perché andarsene con la testa non vuol dire soltanto pensare di essere arrivati, ma anche pensare di essere finito e che le persone ti assoceranno solo a un ruolo.
Si era parlato della possibilità di un ruolo in Me and You di Billy August.
Non ne so ancora niente.
Ma l’idea di lavorare all’estero la interessa? Sta lavorando sulla lingua?
Sì, finita l’intervista inizio una lezione di americano. Ma tutto con la dovuta calma. Inutile bruciare le tappe. Con calma, metodicità, rilassatezza e, soprattutto, divertimento ti puoi godere il processo. È tra i miei sogni, però con la giusta tempistica. Il mercato si sta trasformando. È palese come le piattaforme ci stiano aiutando ad avere un occhio fuori e le persone da fuori inizino a guardare verso di noi. Le cose stanno cambiando, godiamoci il processo senza dover correre verso un qualcosa che non si sa cosa sia.
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