Venice Immersive, un “gioiellino” di cui la Mostra si attesta la primogenitura. Il film tecno-visionario di Harmony Korine, Aggro Dr1ft, e la volontà di collocarlo all’interno del cinema “tradizionale”. E ancora: la scommessa sul futuro (“Se chi verrà dopo di me lo vorrà”), le proteste sul red red carpet contro “i registi stupratori”, lo sciopero in America, i “dati estremamente confortanti sull’affluenza”. A tre giorni dalla fine del festival – la chiusura è sabato – il direttore della Mostra Alberto Barbera incontra The Hollywood Reporter Roma per parlare del progetto di Venice Immersive, nato nel 2017, e accennare un primo bilancio di questa edizione, la penultima sotto la sua direzione.
“Temevamo defezioni da parte degli spettatori, perché mancavano alcuni talent americani, ma non è successo. Abbiamo incrementato le vendite dei biglietti e degli abbonamenti”. Un pensiero, nel giorno della notizia della morte di Giuliano Montaldo, va anche al grande maestro del cinema italiano: “L’ho frequentato a lungo, sia al festival sia quando lavoravo al Museo del Cinema di Torino. Siamo stati spesso a cena insieme, per lui era un’occasione per raccontare barzellette straordinarie. Era un attore nel modo in cui le raccontava, perché le interpretava. Non ho mai riso tanto”.
Venezia ha dato grande spazio alla realtà virtuale: quale il programma per il futuro?
Nessun grande festival ha una sezione competitiva dedicata alla realtà virtuale. Qualcuno gli ha dedicato sezioni collaterali poi abbandonate: il Sundance, quest’anno, l’ha cancellata. Il Festival di Cannes ospitava una rassegna VR all’interno del marché, sul cui futuro non ci sono certezze. A Venezia siamo stati dei pionieri. Non vedo perché dovremmo gettare la spugna, lasciando ad altri il compito.
Continuerete a investire nella sezione?
Assolutamente sì. Almeno fino a quando la Biennale non cambierà idea, o io non sarò più qui. Magari arriverà un direttore cui non importa nulla della realtà virtuale. Tutto è possibile, in un contesto come questo.
Che futuro immagina per la realtà virtuale?
La realtà immersiva, o virtuale, è ancora in una fase sperimentale. Non è un segmento dell’industria consolidato e non ha raggiunto un livello di standardizzazione tecnologica, linguistica o creativa. Siamo quindi ancora in una fase embrionale. Ma ogni anno si fanno piccoli passi avanti. Non si può prevedere ciò che accadrà in futuro.
Con questo progetto siamo partiti nel 2017 e in questi cinque anni di concorso internazionale abbiamo rappresentato la sperimentazione in corso, nelle sue punte più avanzate e artisticamente interessanti.
Fuori concorso c’è Aggro Dr1ft, un film che dialoga con le nuove tecnologie. Lo avete mai considerato per Venice Immersive?
No, perché quella di Korine non è realtà virtuale. Si tratta certamente di una ricerca dal forte carattere sperimentale, che sonda i limiti estremi del cinema, del suo linguaggio, della sua estetica. Ma utilizza altri strumenti.
Si muove nell’ambito dell’arte visiva. Siamo più dalle parti della video installazione, della videoarte, nel territorio della Biennale Arte. Ma è cinema, anche se non è detto che la sua destinazione finale sia la sala. Korine mi ha confessato che deve ancora decidere come “utilizzarlo”. Il suo è un lavoro di contaminazione. Oggi non è più possibile pensare al cinema come a un ambiente chiuso in se stesso, senza collegamenti con le altre forme d’arte.
Si può tentare un bilancio del festival? È soddisfatto?
Si può cominciare a fare un bilancio, nel senso che abbiamo dati estremamente confortanti sull’affluenza. Faremo i conti alla fine, ma il risultato è certamente positivo. Inoltre non ho mai percepito un livello di gradimento così alto nei confronti delle opere proposte. La maggior parte dei film sono stati accolti in maniera estremamente positiva. Negli anni ci sono sempre stati alti e bassi, ma considero il programma di questa edizione tra i più forti: sia sulla carta che alla prova dei fatti.
Vorrei anche dire che i giovani sono tantissimi, la maggioranza del nostro pubblico. Parliamo di ragazzi e ragazze di 17-18 anni fino a 25-30: è la conferma che il cinema continua ad attrarre anche i giovani, che cercano la qualità e sanno che qui a Venezia possono trovarla. Fa ben sperare per il futuro, del festival e delle sale. Perché è chiaro che l’obiettivo del nostro lavoro è quello di tenere in vita un sistema che ha garantito, per 120 anni, il successo del cinema.
Degli scioperi che idea si è fatta? Gli studi troveranno un compromesso con attori e sceneggiatori?
Come tutti gli scioperi, alla fine si raggiungerà un compromesso. Anche perché alcune richieste sono giuste, sacrosante e condivisibili. Ciò che è mancato fino ad ora è la volontà di dialogare e trattare seriamente. Soprattutto da parte degli Studios, e non è incoraggiante. Ma lo sciopero non potrà durare a lungo. Le conseguenze sarebbero per tutti pesantissime. Le prime a rimetterci sono proprio le major e le piattaforme. Più di tanto non possono resistere.
Due giorni fa sul red carpet un gruppo femminista ha protestato contro la scelta di includere in programma i film dei “registi stupratori” (le accuse erano per Woody Allen, Roman Polanski e Luc Besson, ndr). Che ne pensa?
Quei tre registi sono al festival per un caso: avevano tre film pronti che abbiamo visto e che ci sono piaciuti. So che sono apparse scritte di protesta, in giro per il Lido, ma sono opera di gruppi di assoluta minoranza. Attivisti che vogliono suggerire l’idea che esista una mobilitazione contro questi autori. Ma non c’è.
Guardiamo l’accoglienza ricevuta da Woody Allen: oltre alle 10 persone che hanno cercato di contestarlo durante il red carpet, il suo è stato un grande ritorno. Con una standing ovation prima e dopo il film. Il Times ha scritto addirittura che è il miglior film di Woody Allen dai tempi di Match Point.
È d’accordo?
Mi sembra un po’ eccessivo. Ma la mia impressione è che la maggioranza delle persone, a parte gli attivisti del MeToo e di movimenti analoghi, hanno capito che prendersela con Allen è una cosa insensata, e soprattutto immotivata. Stiamo parlando di una persona che 25 anni fa ha subito due indagini approfondite, al termine delle quali è stato giudicato innocente.
Polanski è stato processato cinquant’anni fa, è stato condannato negli Stati Uniti e ha chiesto perdono, che gli è stato concesso anche dalla vittima. A me sembra che abbia, in qualche misura, pagato il debito.
L’Italia, però, ha un problema. Le violenze sessuali si ripetono. E Venezia è una vetrina.
Sì, ma questo è un accanirsi nei confronti di persone che sono diventate un simbolo. Le battaglie dietro alla nascita di movimenti come il MeToo sono sacrosante e le sostengo convintamente. Non possiamo tollerare una situazione di disparità tra uomini e donne, e tantomeno di violenze perpetrate continuamente. La cronaca, in questo periodo, è preoccupante. Ma le battaglie si fanno nella maniera giusta, utilizzando i simboli giusti. Se scegliamo come obiettivo Woody Allen o Luc Besson, entrambi scagionati dalle accuse, mi sembra molto sbagliato.
Di più: è una scelta che rischia di danneggiare la bontà della battaglia. Crediamo nella legge? La legge ha stabilito che queste persone non sono colpevoli. Continuare ad accanirsi contro di loro è persecuzione, non giustizia.
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