Erano appena passate 48 ore che le bocciature agli Oscar erano già divenute oggetto di molteplici cicli di notizie con una varietà di prese di posizione calde, fredde e veramente stravaganti, persino l’intervento di un’ex-candidata alle presidenziali degli Stati Uniti, Hillary Clinton. Si potrebbe parlare di un Barbie Gate.
Al centro di tutto ci sono le donne di spicco di Barbie, Greta Gerwig e Margot Robbie, che sono state escluse dalle nomination rispettivamente per la miglior regia e per la miglior attrice. L’indignazione diffusa è stata in qualche modo comprensibile: si trattava di un legittimo aspirante ai premi, nonché campione d’incassi del 2023 (in altre parole, finalmente un film da Oscar che la maggior parte delle persone aveva visto e su cui quindi aveva un’opinione), il quale conteneva un sorprendente e sovversivo messaggio femminista di cui Gerwig e Robbie erano accreditate come le principali artefici.
E, cosa più importante, Ken (Ryan Gosling) ha avuto una nomination e l’attrice che interpretava Barbie (Robbie) no. Questi fattori si sono combinati in un’ironia troppo perfetta per resistere alla macchina dell’indignazione virale del XXI secolo nota come social media.
La reazione dei social all’esclusione di Barbie
Subito dopo le nomination (nelle ore più innocenti di martedì 23 gennaio mattina), sembrava che le bocciature di Barbie potessero rivelarsi in realtà una benedizione, con la furia dell’opinione pubblica a favore delle donne disprezzate che avrebbe spianato la strada alla successo complessivo del film nella notte degli Oscar. Tuttavia, l’eccessivo accanimento – che sembra ignorare il fatto che Gerwig e Robbie abbiano comunque avuto delle nomination per Barbie (rispettivamente come co-sceneggiatrice e produttrice), oltre a sorvolare sulla candidatura a sorpresa dell’attrice non protagonista America Ferrera nel ruolo dell’umanissima Gloria – ha rapidamente trasformato la buona volontà in tossicità.
Il che è un peccato, perché ci sono valide considerazioni da fare sulle omissioni di Gerwig e Robbie, soprattutto nel caso della prima, che è l’unica regista i cui primi tre progetti – Lady Bird, Piccole donne e ora Barbie – sono stati tutti candidati per il miglior film, secondo Scott Feinberg di The Hollywood Reporter. Tuttavia, i contributi specifici di Gerwig alla regia sono stati riconosciuti solo una volta (per Lady Bird).
Ci sono abbastanza dati, in termini relativi, per potersi legittimamente interrogare sul perché la sezione registi dell’Academy, responsabile di determinare i candidati nella sua categoria, non ha costantemente risposto al suo lavoro come il resto dei membri dell’Academy. Vale la pena di notare, sempre secondo quanto riportato da Feinberg, che la sezione registi è attualmente composta per il 75% da uomini.
Un’esclusione sessista?
Tuttavia, è troppo semplice attribuire le bocciature di Barbie al semplice sessismo (per esempio, Gosling e Robbie non hanno gareggiato testa a testa per le loro candidature come attori). Inoltre, l’accusa di misoginia cancella il risultato di Justine Triet; la regista di Anatomia di una caduta è l’unica candidata nella categoria miglior regia.
Una domanda più difficile, ma migliore, è se l’Academy sia prevenuta nel considerare alcuni tipi di lavoro, sia davanti che dietro la macchina da presa, come più “da premio” rispetto ad altri (una tesi che Feinberg ha sostenuto nella sua analisi post-nomination). Sebbene molti attori affermino che la commedia è più difficile del dramma (come hanno fatto Robbie e Lily Gladstone nella tavola rotonda di THR di quest’anno), gli Oscar tendevano tradizionalmente verso la gravitas, e le commedie che piacciono sono quelle più palesemente anticonformiste (Povere creature! quest’anno, l’innovativa Everything Everywhere All at Once dell’anno scorso).
È in questo quadro di pregiudizi di genere che si può iniziare a interrogarsi sul ruolo di questi ultimi. Lo scopo di Barbie – sia del film che della rappresentazione stereotipata della bambola che il personaggio della Robbie incarnava – è quello di proiettare la perfezione. E poiché Barbie è sempre stata intesa come un emblema della femminilità umana, per estensione rappresenta l’aspettativa che le donne siano impeccabili, senza sforzo: che facciano tutto, all’indietro, e letteralmente sempre sui tacchi, senza sudare.
Con l’avvertenza che i premi artistici sono sempre un esercizio di soggettività e che nel determinarli entrano in gioco infiniti fattori, una buona domanda da porsi è: perché un uomo che interpreta un emblema biondo di perfezione è stato visto come più coraggioso di una donna che fa lo stesso? Forse la vera ironia della bocciatura di Barbie è che Gerwig e Robbie hanno fatto sembrare troppo facile essere belle e disinvolte.
Detto questo, un aspetto ironico delle reazioni alla bocciatura di Barbie è che si è cercato di mettere le donne contro le altre donne (a Barbieland non succederebbe mai!). Un articolo è stato criticato perché sembrava sminuire le performance delle attrici candidate per difendere Robbie. Inoltre, un coro crescente in rete sta sottolineando un secondo aspetto ironico: nonostante la diversità e l’inclusività di Barbie sullo schermo, l’ossessione per le sue bocciature ai premi è un esempio di femminismo bianco al suo peggio, in cui gli sgarbi a due donne bianche vengono messi al centro a scapito del riconoscimento di donne bipoc sia candidate (come Gladstone e Ferrera) che non (come la star di Past Lives Greta Lee).
A proposito di quest’ultimo aspetto, sarebbe riduttivo etichettare l’esclusione di un determinato artista come razzista, omofoba o abilista (per esempio, personalmente mi chiedo se Past Lives – e l’interpretazione bilingue e ricca di sfumature di Lee – fosse troppo sottile e silenzioso per alcuni, e se il lato camp intenzionale di May December abbia fatto sì che ad alcuni votanti sfuggisse l’interpretazione di Charles Melton). Tuttavia, credo che queste forze si applichino ancora all’ecosistema in cui esistono queste scelte individuali.
Il pregiudizio secondo l’Academy
Non è solo una questione di pregiudizio inconscio, anche se questo continua ad affliggere il modo in cui il pubblico e i votanti si confrontano con i film raccontati dalla prospettiva di personaggi non bianchi, come ha spiegato a THR la regista di The Woman King Gina Prince-Bythewood.
Dopo che Lee e Melton non sono riusciti a ottenere le nomination quest’anno, alcuni hanno scherzato sui social media dicendo che l’Academy deve aver considerato il suo lavoro concluso per quanto riguarda la rappresentanza asiatica dopo la quantità di premi assegnata a Everything Everywhere All At Once nel 2023.
Ciò che è discriminatorio è quanto sia raro che attori asiatici, latini, indigeni o disabili riescano a entrare nella rosa dei candidati. Come disse Viola Davis nel suo iconico discorso agli Emmy del 2015, “L’unica cosa che separa le donne bipoc da chiunque altro sono le opportunità. Non si può vincere un Emmy per ruoli che semplicemente non ci sono”.
Tutti bianchi al ballo
La metà dei venti attori candidati agli Oscar quest’anno ha già partecipato a questo ballo; inoltre sono tutti bianchi. È difficile descrivere brevemente i tipi di ruoli per i quali sono stati premiati, perché la loro gamma è così varia e ognuno è così multidimensionale: partner domestici soffocati, insegnanti tormentati, artisti vanagloriosi, intrallazzatori, sognatori, naïf rianimati.
Lee, invece, è un’attrice professionista da quasi metà della sua vita (ha quarant’anni) e Past Lives è il suo primo ruolo da protagonista. Non c’era nulla in passato per cui candidarla, e la sua esperienza non è unica tra gli interpreti provenienti da contesti storicamente esclusi.
Con pochi punti di riferimento (sia per il singolo interprete che per la comunità che rappresenta), le bocciature colpiscono in modo diverso (e se è vero che si può discutere dei meriti del lavoro di Leonardo DiCaprio, anch’egli snobbato, in Killers of the Flower Moon, c’è forse da dubitare che sarà di nuovo sulla bocca di tutti non appena uscirà il suo prossimo progetto?).
A dicembre, Lee ha ricevuto il premio “Breakout in film” all’Unforgettable Gala, l’annuale riconoscimento per gli asiatici nel mondo dello spettacolo. “Dopo un’intera carriera passata a interpretare personaggi di supporto alle storie di altre persone, per la prima volta sono stata al centro della mia storia”, ha commentato l’attrice.
“Ho potuto fare quello che ho visto fare ai miei pari e ai miei artisti preferiti: ho potuto interpretare un personaggio che ha a che fare con l’amore, il destino e le scelte che determinano una vita. Ho potuto interpretare una persona normale che sta cercando di capire cosa significa essere vivi. E ora che so com’è, potrebbe essere davvero difficile tornare indietro”.
Questo è il timore: che questa esperienza incantata sia stata solo un’anomalia per questi artisti, che quest’anno si sono fatti strada dai margini alle luci della ribalta e hanno sorpreso per la loro portata, per poi non ottenere il riconoscimento finale.
Ma le parole di Lee possono anche essere utilizzate come un appello e una chiamata alle armi per gli sceneggiatori, i direttori di casting, i produttori e i dirigenti degli Studios che potrebbero essere interessati a far emergere il potenziale non sfruttato di interpreti che finora sono stati messi da parte, limitati e resi incapaci di esprimere la loro piena umanità. Suona familiare?
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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