Enzo Jannacci, se avesse avuto la malizia istriona di Dario Fo, ora ce lo ricorderemmo come un premio Nobel. Perché pochi hanno giocato acrobaticamente con le parole, le note, la letteratura e il pensiero come lui, filosofo metropolitano e cantastorie militante, musicista fenomenale e comico (in)dolente che se avesse avuto voglia e tempo, sarebbe stato il migliore di tutti. Ma ha preferito vivere, esagerare, essere il più anarchico dei geni.
Enzo Jannacci – Vengo anch’io, le interviste
Enzo Jannacci – Vengo anch’io di Giorgio Verdelli, fuori concorso a Venezia 80, è “un modo per rendergli giustizia – ammette il regista – di tirarlo fuori da quell’oblio controllato a cui troppi l’hanno consegnato perché il figlio Paolo è un jazzista che non ha voluto fare il clone o la vestale e non ci sono fondazioni ad alimentarne il ricordo”.
“Enzo, se avesse voluto, avrebbe potuto vincere il Nobel”, chiosa Paolo Rossi, che con lui ha diviso un pezzo di vita, carriera e affinità elettive. “Però attenti, ora tutti dicono che era un genio, un classico quando muori e diventi inoffensivo, ma sono gli stessi che prima dicevano che era troppo inaffidabile, fuori dagli schemi, incontrollabile. Persino pericoloso. Da vivo, quando la comicità televisiva si è appiattita su livelli impossibili, gli han pure dato del vecchio: figurati, come dice Frassica, quello che lui diceva prima non è attuale nel nostro presente, è già futuro”.
Cento minuti di canzoni e ricordi
Ti emozioni guardando questi 100 minuti scarsi di canzoni, esibizioni, materiali di repertorio scelti con cura e centellinati, montati con amore e linearità, lasciando la luce a Enzo e non alla propria vanità di autore o testimone. Tutti fanno un passo indietro e uno di lato, regista e convenuti, da Diego Abatantuono a Vasco Rossi, a Roberto Vecchioni che parla su un tram, per farci sentire addosso quel guitto meraviglioso e ispiratissimo.
Enzo Jannacci - Vengo anch'io
Cast: Roberto Vecchioni, Diego Abatantuono, Paolo Jannacci, Dalia Gaberscik, Vasco Rossi, Claudio Bisio, Massimo Boldi, Cochi Ponzoni, Elio, Dori Ghezzi, Paolo Tomelleri, Nino Frassica, Paolo Rossi, Francesco Guccini, Massimo Martelli, Gino & Michele, J-Ax, Paolo Conte, Valerio Lundini, Francesco Gabbani, Guido Harari
Regista: Giorgio Verdelli
Sceneggiatori: Giorgio Verdelli
Durata: 97 minuti
Quel tram è una scelta deliziosa e milanesissima, perché se la città meneghina ha un orgoglio oltre a Enzo, la Madonnina e l’Ortica è proprio quel mezzo di trasporto assurdo che ha esportato ovunque – tanto sono belli in tram a Milano – fino a San Francisco. E perché il tram è in mezzo a uno dei più bei versi di Jannacci e perché, dice Vecchioni, “è come il mondo, gira in tondo, tanti entrano e tanti escono, come sul pianeta tanti nascono e tanti muoiono e ci sono sempre persone diverse”.
Enzo Jannacci, la recensione
Tante testimonianze che hanno solo un difetto, la loro finitezza (ci vorrebbe una docuserie in 4 puntate) e non di rado un rispetto che lui avrebbe deriso. Perché di oscurità in Enzo, lo vedi nella lettera cantata alla moglie e al figlio, c’era eccome. In quell’artista e uomo che non poteva e non sapeva essere una cosa sola, l’abisso era vicino al palco, sempre a un passo.
Comico, musicista, attore, medico era tanto, mai troppo. “Il cantastorie, il trovatore – continua Paolo Rossi – deve sapere e potere pescare nel lato oscuro, la vero democrazia è consentire all’artista di dire anche ciò che non pensa. Ora sono tempi diversi, prima avevi risse artistiche e sociali, assemblee democratiche e violente su posizioni creative, politiche, personali. Enzo sapeva per esempio essere dolcissimo, generoso e affettuoso ma anche una persona violenta d’animo. Aveva luci meravigliose e ombre profonde. Ricordo una cosa che non ho mai detto neanche nello spettacolo che gli ho dedicato. Alla fine di una nostra serata usciamo, ma in mezzo alla strada c’era un dobermann che digrignava tutta la dentatura. Io ho paura, lo lascio andare avanti. Lui, cintura nera di karatè, si avvicina calmo, e dice all’orecchio dell’animale ‘se non te ne vai ti succhio il cervello dall’orecchio. Il cane è andato via con la coda fra le gambe”.
“Il mio maestro”
L’attore ricorda con nostalgia “quello che non faccio alcuna fatica a definire maestro, il mio maestro”. Tutti hanno un ricordo di Enzaccio, tutti vogliono mostrare il lato privato della loro amicizia ma non prima di ricordarne il genio. Via del Campo la ispirò lui a De André, Romanzo Popolare, uno dei capolavori della commedia all’italiana. è frutto della penna sua e di un altro ancora più dimenticato, mente eccelsa, animo tormentato, ironia affilata: Beppe Viola.
Confessa il figlio Paolo che “conoscevo tutte le risposte di amici e sodali, ma il fatto che abbiano istituzionalizzato un pensiero comune su mio padre in un’opera che rimarrà nel tempo, che quella stima intima, quel grande affetto sia ora visibile a tutti mi ha fatto felice. Mi sono emozionato, soprattutto perché vederlo con il pubblico, sentendone l’affetto, lo slancio emotivo, dagli amici ma anche dagli sconosciuti, è stato sorprendente”.
Si somigliano, tanto. E si perde un attimo lo sguardo, come succedeva al papà, raccontando la strana mattina veneziana in cui il Lungomare, per volere della strana truppa di questo film, e non solo, si è riempita di musica, di Enzo, di gioia con i Funkoff, la banda più pazza del mondo. “Bello ballare papà con mia moglie per le strade del Lido”, sussurra quasi.
Vasco, voce rotta dall’emozione
Ecco, il pudore milanese con cui tutti (anche i pochi non milanesi) parlano di Jannacci fa quasi sospettare che temano che lui da un momento all’altro possa uscire da un angolo e prenderli in giro o a pedate per eccesso di retorica. E allora nel film parlano ancora di più gli sguardi rubati. Quello di J-Ax – “un cantautore moderno che ha fatto parlare la strada”, dice Paolo Jannacci, “come ha fatto papà, lui però ha usato il rap, ma libertà ed energia sono simili”, dopo aver cantato Veronica. Abbracciando il figlio del maestro a fine esecuzione, per una frazione di secondo il suo sguardo goliardico e da finto duro si scioglie nella commozione.
O Vasco Rossi, sorpreso per l’invito in tv quando era un parla, mentre estasiato come solo un fan del Blasco sarebbe davanti a lui, ascolta Enzo decantare le sue ludi in un documento di repertorio eccezionale. E ancora un Gaber rock, scatenato, che canta lui, con lui, per lui. Una prova incredibile di talento e amicizia, entusiasmante e commovente. O Vasco, ancora, a cui si spezza la voce leggendo una lettera che gli ha scritto il maestro, di cui sa a memoria tutte le canzoni. E il modo in cui esulta il compassato Giorgio a fine esibizione, ti dice che Enzo ha dato a tutti qualcosa. E tutti si sentono e si sono sempre sentiti in debito.
Enzo Jannacci – Vengo anch’io, che nelle sale italiane, su ben 200 schermi, ci sarà dall’11 al 13 settembre – è anche questo, un atto di gratitudine, un tentativo di restituire l’immensità da cui si è stati investiti con gioiosa noncuranza.
“Sono quegli incontri che ti cambiano la vita: non solo sul palco, in tv, ma nella vita appunto. Con lui – rivela Paolo Rossi – era tutto un fare esperimenti che poi appena possibile trasportavi nelle performance, l’importante è che la giornata fosse movimentata per avere qualcosa da raccontare in un monologo o in una canzone”. E se poi pensa all’insegnamento più prezioso che gli ha dato, risponde di getto, lui che dal teatro dell’assurdo a Sanremo con I soliti accordi, dalle cure improvvisate con beveroni sospetti agli scherzi costanti, con lui ne ha passate di ogni.
Da Cochi e Renato a Paolo Conte
“Meglio un fiasco trionfale che un successo sobrio, un consiglio che ho seguito fin troppo. Ma soprattutto Enzo mi ha insegnato a scommettere su me stesso, a rischiare, a farmi credere che dentro di me c’era materiale su cui puntare”. Un superpotere che dal documentario emerge prepotente: Cochi e Renato, Vasco Rossi che capisce di valere davvero quando sente lui cantare Vita spericolata, Bisio che se potesse metterebbe nel curriculum che per lui ha fatto il tamburo.
Ma ti emoziona pure la deferenza mai vista di Paolo Conte, che perde la sua genovesità sferzante e da genio a genio, ne riconosce la grandezza. Manca un po’ di Elio, che in teatro l’ha resuscitato davvero, forse si potevano evitare Lundini e Gabbani. Dettagli. Enzo scende per un attimo dal suo Messico e nuvole ed è di nuovo tra noi. Su quel tram. In cui vorresti vederlo e sentire ancora. E non capire niente di quello che dice, come succedeva a Guccini e quasi tutti, perché il suo gramelot era la lingua di chi ne parlava troppe contemporaneamente, di chi il suo genio lo vedeva esplodere come una supernova ovunque, di chi pensava troppo veloce per perdere tempo a parlare la lingua mediocre degli altri.
“Ho raccontato Pino Daniele e Napoli su un autobus – ricorda il regista Verdelli – come potevo non ricordare Jannacci e quella Milano su un tram? Due città multicentriche così vanno percorse con i loro geni in movimento”. Non poteva fare altrimenti. Però non ci basta. Vogliamo altro, ne vogliamo ancora di quella pazza gioia scura, di quell’esplosione di parole, di quella ricerca beckettiana della bellezza, di quella goliardia raffinata e selvaggia. E la vogliamo ora.
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