C’è voluto un po’ di tempo prima che il pubblico si riscaldasse di fronte al monologo di John Mulaney ai Governors Awards, la cerimonia che assegna gli Oscar alla carriera, tradizionalmente separata dagli Oscar veri e propri. Da qualche anno, le star di Hollywood si presentano a questo genere di celebrazioni tenendo la difensiva: non si sa mai quale stand up comedian potrebbe salire sul palco, chi prenderà di mira e a chi rovinerà la serata.
Il presentatore Jo Koy non è stato apprezzato dal pubblico di Golden Globes. È un eufemismo: le sue battute sono state un disastro abissale, tanto che Koy si è dovuto giustificare durante la performance, prendendosela con i suoi autori – “a quelle che ho scritto io avete riso”. La reazione di Taylor Swift a una freddura che la prendeva di mira ha fatto ridere il pubblico più della freddura stessa.
Certo, anche il lavoro di presentatore è uno difficile: la zona grigia tra il “rido con te” e il “rido di te” ha bisogno di bussole precisissime, per non trovarsi all’improvviso dal lato sbagliato. Lo ha imparato a sue spese Chris Rock nel 2022, quando agli Oscar Will Smith gli ha mollato quel celeberrimo e spaventoso rovescione per una battuta di troppo su sua moglie.
Ai Governors Awards, John Mulaney l’ha riconosciuto esplicitamente: “Signori e signore, mi guardate pensando: «Grandioso, un altro maledetto stand up comedian è qui a prenderci in giro durante uno dei nostri sacri rituali»”. Ma Mulaney non è quel genere di comico: quasi sempre, nei suoi spettacoli, la principale vittima sacrificale è lui stesso.
L’ultimo suo special, Baby J, su Netflix, è un racconto del suo percorso di rehab. È un genere di comicità che può divertire, anche risultare sofisticata.
Ai Governors si è introdotto, dicendo: “per quelli di voi che non mi riconoscono dai turni del martedì sera degli alcolisti anonimi nelle Palisades…” riferendosi all’area iper-residenziale di Los Angeles.
È uno stile che riconosce la nuova sensibilità del pubblico, ma anche per questo poco graffiante. Non è che Mulaney non prenda in giro altri che lui, ma le sue stoccate non sono mai rivolte al singolo. “Angela Bassett [che vinceva l’Oscar alla carriera] è un’attrice talmente grande da essere stata nominata a un Oscar per un film della Marvel”. In sala c’è Robert Downey Junior, Iron-Man, e la regia prontamente lo inquadra (se la ride a crepapelle). Ma Mulaney non ne approfitta.
Sono anni di transizione per la comicità americana, in cui si prendono le misure di una sfera culturale più sensibile alla difesa delle minoranze. Come gli Stati Uniti stessi, il pubblico della stand up comedy è polarizzato. C’è chi reputa questa nuova sensibilità un politicamente corretto esagerato, c’è chi invece lo trova semplicemente un nuovo gusto: certe battute non fanno più tanto ridere.
A dimostrare che non sia vera e propria cancel culture è Dave Chapelle, il più polarizzante stand up comedian degli ultimi anni. Le sue battute sulle persone trans-gender hanno scioccato e sono state molto criticate, ma Chapelle continua a sfornare special su Netflix, con contratti molto ricchi.
Di fronte al dibattito, ai comici sembrano rimanere due strade: la comicità garbata di Mulaney o il politicamente scorretto di Chapelle. Il secondo sembra però incastrato in un circolo vizioso: più si cerca di imprigionare la sua comicità, più Chapelle spinge sulla sconvenienza, costringendosi a riciclare il suo repertorio e le sue vittime. A quel punto, il pubblico si oltraggia ancora di più. Chapelle rilancia di nuovo. Il circolo vizioso si ferma quando il pubblico si annoia.
Le critiche a Chapelle colgono un punto efficace: è facile prendersela con le minoranze. Per questo non bisogna fare l’errore di pensare che la comicità di Mulaney sia la più adatta alle serate di gala. Chi vince i premi non è ai margini della società: sono donne e uomini tendenzialmente molto ricchi, quasi tutti americani, spesso bianchi, vestiti dai più importanti stilisti al mondo. È quasi un imperativo morale prenderli in giro.
E così torna alla mente un altro monologo ai Golden Globes, uno dei più celebri, divertenti e velenosi discorsi di apertura degli ultimi anni: 2020, Ricky Gervais.
Nel 2020, sono passati solo tre anni dallo scandalo Harvey Weinstein, meno di un anno da quando l’eminente membro del jet-set newyorkese Jeffrey Epstein si è suicidato dopo essere stato arrestato per traffico sessuale di minori. I giornali cominciano a pubblicare le prime accuse all’istituzione che organizza i Golden Globes, l’Hollywood Foreign Press Association, accusata di essere vecchia, chiusa e non inclusiva. L’ultimo nero ad essere invitato nell’HFPA, in effetti, era diventato membro dell’associazione nel 2002.
Gervais non spazza i problemi sotto il tappeto, li porta sul palco. “In questa sala ci sono alcuni dei più importanti executive cinematografici e televisivi al mondo, ognuno ha la sua storia ma tutti hanno una cosa in comune: sono tutti terrorizzati da Ronan Farrow”, il giornalista del New Yorker che ha lanciato il caso Weinstein.
E ancora: “Molte persone nere di talento sono state snobbate per i premi maggiori ma purtroppo non possiamo farci niente: i membri dell’Hollywood Foreign Press sono tutti molto, molto razzisti”, dice facendo spallucce. Quando fa una battuta sul suicidio di Jeffrey Epstein, il pubblico mormoreggia. Gervais non ci sta: “State zitti, dai, so che era vostro amico ma non me frega niente”.
Si potrebbe pensare che portare quei problemi sul palco, esorcizzarli facendoci una battuta sopra, voglia dire cancellarli. In fondo ci ridiamo su. Ma Gervais va talmente oltre da cancellare la finzione: smettono di sembrare battute, le sue. Sono accuse terribili sull’ipocrisia dei presenti che incidentalmente fanno anche ridere.
Chiudeva così, l’inglese: “Apple si è unita alla competizione con The Morning Show, un drama stupendo sull’importanza della dignità, sul fare la cosa giusta, fatto da un’azienda che sfrutta i lavoratori in Cina. Dite di essere di sinistra, ma le aziende per cui lavorate… non ci si crede: Apple, Amazon, Disney. Se l’Isis aprisse una piattaforma streaming chiamereste il vostro agente, o no? Quindi se stasera vincete un premio, non usate questa serata come una piattaforma per fare un discorso politico, non siete nella condizione di educare il pubblico. Se vincete, venite qua, prendete il vostro piccolo premio, ringraziate il vostro agente e il vostro Dio, e andate affanculo, ok?”
Sono passati pochi anni ma quel genere di comicità, di satira, tagliente e spassosa, sembra difficilissima da fare. Lo stesso Gervais si è incattivito su posizioni conservatrici. Il suo ultimo special, Armageddon, va sulla strada di Chapelle, prendendosela con la spauracchio del politicamente corretto. Come sempre nei suoi show, Gervais – non a caso assente agli ultimi Golden Globes – mette le mani avanti: they are just jokes, “si scherza”. Ma se Gervais ci aveva insegnato qualcosa, è che le battute possono andare oltre, graffiare chi si può permettere il cerotto.
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