Hoard di Luna Carmoon vive dei battiti, delle palpitazioni e dei movimenti dei suoi protagonisti. Della sinergia esplosiva tra Saura Lightfoot Leon e Joseph Quinn: da una parte una giovane alle prime armi, dall’altra l’Eddie Munson di Stranger Things. Ma anche dei traumi dei loro personaggi, con Maria e Michael che rivedono l’una nell’altro il proprio trauma, unendosi e facendosi male a vicenda.
La giovane, figlia strappata dai servizi sociali da una madre accumulatrice seriale, trova nel ragazzo – affetto da sindrome dell’abbandono – l’accesso ad un mondo fatto di libertà e follia. Lo stesso che le è stato sottratto insieme alla madre. Un’opera integra nel suo mostrare i turbamenti di due anime danneggiate, vincitrice del premio del pubblico della Settimana della Critica a Venezia 80 e della menzione speciale per la sua protagonista.
Il suo film, Hoard, è come se fosse ambientato in un Natale perenne. Come mai la fascinazione per questa festività?
Il Natale era una cosa enorme per me e mia nonna. Quando è venuta a mancare, è come se lo avesse portato con sé. Il 25 dicembre non è più stato lo stesso e, fin da quando sono piccola, non mi fa più alcun effetto. Per questo Hoard, a mio avviso, è la versione inquietante del Natale.
Secondo lei, due anime spezzate come quelle di Maria e Michael possono salvarsi?
Prima di diventare una sceneggiatura, Hoard era un racconto. In una riga avevo scritto: Maria e Michael avevano la luna in gemelli ed entrambi puzzavano di trauma, ma non tutti i traumi hanno lo stesso odore. Penso che a volte due persone danneggiate possano riconoscersi in qualcun altro, ma non per questo possono essere in grado di curarne il dolore. O, peggio ancora, cercare di salvarsi a vicenda. Allo stesso tempo è difficile entrare in contatto con qualcuno che non conosce o capisce a pieno la tua sofferenza. È qualcosa di istintivo, il corpo sa prima del cervello a chi avvicinarsi e per quale motivo.
Non pensa, quindi, che si aiutino?
Semmai si usano a vicenda. Michael sfrutta Maria come strumento per accedere all’infanzia che non ha mai avuto, mentre lei lo usa come contenitore della sua follia.
Ha detto “entrambi puzzavano di trauma”. L’odore è una componente importante nel film. Come mai?
Non credo sia una coincidenza che abbia scritto Hoard nel periodo in cui ho perso l’olfatto a causa del Covid. Da allora non è mai tornato come prima. Gli odori mi affascinano e col film ho cercato di accedere a questa dimensione che, per me, è ormai distorta. Sul set abbiamo utilizzato anche un profumo che diventava mano a mano sempre più nauseante. Tutti si domandavano da dove provenisse, soltanto dopo io e lo scenografo che mi aveva aiutato abbiamo svelato il segreto. Volevamo che tutto fosse immerso nell’odore stagnante di Hoard.
Saura Lightfoot Leon e Joseph Quinn sono molto liberi nelle loro performance. Avete pianificato ogni sequenza o ha lasciato carta bianca agli attori?
Mi piace organizzare il lavoro e sapere quali riprese andrò a girare. Ma adoro anche giocare. Inoltre Saura aveva soltanto la prima parte del copione, quando Maria e la madre erano piccole. Non sapeva come sarebbe andata a finire la storia. Si è fidata completamente e credo che questa sia l’unica maniera per ottenere prestazioni simili dagli attori: far vedere che possono contare su di te.
Siete entrati molto in contatto?
Volevo davvero conoscere i miei interpreti. Volevo un incontro e uno scambio sincero tra di noi. Non lavoro con chi non inviterei a casa mia per cena. Saura ha anche conosciuto la mia famiglia.
Quindi qual è il tono del film? Spontaneo o controllato?
Ce ne sono due: l’isteria e l’assurdo del mondo interno dei personaggi e, poi, la società esterna. Le scene di frenesia, a differenza di quello che si potrebbe credere, sono quelle che hanno richiesto prove e accorgimenti per i movimenti. C’è stata anche una sequenza preparata insieme a una coordinatrice di intimità. Mi ha chiesto di mandarle qualche riferimento che avevo da altri film e le ho inviato Il danno di Louis Malle con Juliette Binoche e Jeremy Irons. C’è anche qualcosa di Krzysztof Kieślowski. Anzi, ce n’è molto, a dire la verità.
Più movimenti che parole?
Esatto, Maria non è una chiacchierona e, quando comincia ad entrare sempre più nel vortice delle sue psicosi, diventa ancora meno verbale. Grugnisce o geme, come i suoni che emettono gli animali.
Come è stato lavorare con Joseph Quinn, che ormai è una star?
Joe ha partecipato a molti programmi televisivi britannici e a diversi drammi d’epoca. Qualche tempo fa l’ho visto in Howards End della BBC e mia sorella mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto trovare quel viso sul grande schermo. Ho risposto ovviamente di sì. Sapevo che avrebbe sfondato, certo non potevo immaginare che sarebbe stato con Stranger Things. E non sapevo neanche che avrebbe preso parte alla serie fino al momento dei casting. Con Hoard si è dimostrato all’altezza delle aspettative. Ha capito perfettamente le sfumature che volevo dare e ci si è buttato a capofitto.
Quindi sono i volti che l’hanno attratta verso Saura e Joseph?
Volevo due persone che assomigliassero agli esseri umani. Mi sembrano ormai così rari sullo schermo. Gente a cui si vede la consistenza della pelle, di cui si notano le cicatrici, anche i difetti.
Ha citato Louis Malle e Krzysztof Kieślowski: altri punti fermi per Hoard?
Amo i film britannici degli anni sessanta e settanta. Amo Nick Rouge, Joseph Losey, Alan Clarke. Mentre realizzavo il film nella mia testa lo avevo diviso così: il mondo esterno era il “mondo Alan Clarke”, quello assurdo era il “mondo Ken Russell e Krzysztof Kieślowski”.
Continuerà ad esplorare questa linea assurda?
Assolutamente. Adoro l’assurdo. A volte mi sembra più naturale del mondo vero.
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