The Zone of Interest, la recensione: l’agghiacciante quotidianità dei “vicini di casa” di Auschwitz

Accolto con un lungo applauso a Cannes, il film di Jonathan Glazer è l'adattamento molto libero dell'omonimo romanzo di Martin Amis: la storia della famiglia di un comandante delle SS che vive una vita da sogno, a pochi metri dal campo di sterminio

Ormai è chiaro, Jonathan Glazer non è in grado di fare film che non siano almeno originali. Con il suo esordio nel 2000, Sexy Beast – l’ultimo colpo della bestia, ha rivalutato il thriller gangsteristico britannico. Quattro anni dopo è arrivato l’inquietante e mistico Birth – Io sono Sean, accolto freddamente dalla critica e infine rivalutato, col tempo, come un nuovo Rosemary’s Baby. Quasi dieci anni dopo Glazer è tornato, infine, con il fantascientifico e ipnotico Under the Skin, storia di un’ aliena che seduce e uccide gli uomini in Scozia, finché un giorno non scopre di provare delle emozioni.

Il nuovo film in lingua tedesca di Glazer, The Zone of Interest, che arriva dopo altri dieci anni di assenza del regista dal set, è un dramma sull’Olocausto devastante come pochi, che dimostra – con sorprendente efficacia – l’infallibile controllo esercitato dal regista britannico sulla narrazione per immagini. È un problema che un talento come il suo sia così poco prolifico. O forse è proprio per questo che i suoi film sono tanto speciali.

Adattando il romanzo di Martin Amis del 2014, alleggerendo e riscrivendone radicalmente la trama, pur conservando il punto di vista di uno dei tre narratori, Glazer trasforma il protagonista (romanzato) del libro nell’ufficiale (vero) delle SS, Rudolf Höss. Comandante più anziano del campo di concentramento di Auschwitz, Höss è stato uno dei principali artefici del perfezionamento delle tecniche di sterminio di massa attuate durante la spinta per la realizzazione della “Soluzione Finale” voluta da Hitler.

L’altro elemento in comune con il libro è l’ambientazione, quella che dà il titolo  al film: l’area di circa 40 km quadrati intorno ad Auschwitz, nella Polonia occidentale.

L’eufemismo del titolo calza perfettamente con il tema del film, ovvero la negazione, messa in scena attraverso il racconto dell’esistenza bucolica di Höss (Christian Friedel), di sua moglie Hedwig (Sandra Hüller, la rivelazione di Toni Erdmann) e dei loro cinque figli, appena al di là del muro di recinzione del campo – a poca distanza dal luogo in cui vengono commesse atrocità indicibili. L’essenza stessa di ciò che Hannah Arendt chiamava “la banalità del male”, perfettamente catturata dalle interpretazioni realistiche del cast.

Il film fa una tacita ma fondamentale distinzione tra l’inconsapevolezza di chi non sa o non capisce, e chi rifiuta di considerare la propria approvazione della strage in corso come una semplice conseguenza dell’adesione patriottica alla linea di partito. È superfluo sottolineare quanto questa distinzione trovi ancora oggi un’eco profonda in molti scenari politici contemporanei.

Lavorando con il direttore della fotografia polacco Łukasz Żal, che ha girato il bellissimo bianco e nero di Ida e Cold War di Pawel Pawlikowski, Glazer ha inserito nella residenza di Höss, ricostruita dallo scenografo Chris Oddy, un certo numero di telecamere manipolabili in remoto. Ha girato così simultaneamente anche con dieci telecamere in altrettante stanze, senza luci artificiali, permettendo agli attori di muoversi liberamente nell’ambiente.

Stesso schema visivo per l’esterno, nell’ampio giardino che è l’orgoglio di Hedwig, con la serra, gli alberi da frutto e gli orti, tutto accuratamente riprodotto secondo le testimonianze storiche. Il film si svolge prevalentemente attraverso inquadrature fisse, in campo largo e con la luce naturale: uno stile distaccato che rende la materia rappresentata ancora più agghiacciante.

Allo stesso, rivoluzionario modo lavora la musica inquietante di Mica Levi, accanto a Glazer anche in Under the Skin, nel fondere la colonna sonora con il suono ambientale. Il prologo e l’epilogo del film sono a schermo nero, interrotti solo dalle parole del titolo e accompagnati dalla colonna sonora di Levi, torbida e maligna, che esplode in una potente cacofonia finale. Il film è punteggiato a intermittenza da violenti squilli di trombe, come grida di animali ultraterreni feriti.  

La famiglia Höss viene inquadrata la prima volta mentre fa un picnic in riva al fiume, in una giornata di sole, insieme agli amici. La macchina da presa li riprende spesso in giardino, mentre festeggiano un compleanno o nuotano in piscina durante una festa. L’evidenza visiva (presumibilmente anche olfattiva) del fumo che si sprigiona dai forni crematori del campo, le grida dei prigionieri, i latrati dei cani da guardia, le parole degli ufficiali sembrano non essere nemmeno percepiti. L’orrore è come il rumore di fondo di un televisore lasciato acceso in un’altra stanza della casa.

Ma a rendere l’incubo ancora più straziante non è tanto l’apparente impermeabilità della famiglia alle atrocità, quanto la scelta di Glazer di rimanere esclusivamente dal lato “civile” del muro. A far più paura è ciò che non si vede. Anche l’assenza di qualsiasi retorica hitleriana rende ancora più insopportabile il freddo realismo della situazione.

Il copione di Glazer si muove abilmente tra momenti quotidiani dell’ordinaria vita domestica della famiglia Höss: Hedwig in cucina che ride insieme alle mogli degli altri ufficiali delle sue domestiche ebree, che non paga e che tratta come se non esistessero; Rudolf che chiude a chiave ogni porta di notte; uno dei loro giovani figli che gioca da solo nella stanza, senza spaventarsi per il rumore della fucilazione di un prigioniero. E poi naturalmente la quotidianità professionale del capofamiglia, con le sue riunioni d’affari informali in cui, insieme ai colleghi ,discute le strategie migliori per l’incenerimento di massa.

Solo di rado la verità del campo di sterminio si fa largo nella loro percezione. Succede durante un pomeriggio in cui Rudolf, a pesca in canoa sul fiume con i figli, si accorge con stupore che la superficie dell’acqua è cosparsa di cenere di corpi bruciati. Solo a quel punto, fa entrare di corsa in casa i bambini per pulirli.

Gli intermezzi più  inquietanti del film sono quelli durante i quali Rudolf legge le favole della buonanotte: le immagini passano al termografico e vediamo così una ragazzina, appartenente al movimento partigiano ebraico, che esce di nascosto di notte a raccogliere mele e pere, per lasciarle dove i prigionieri possano trovarle.

A rompere la serenità della famiglia arriva la notizia del trasferimento di Rudolf alla sede centrale, vicino a Berlino. Hedwig si infuria, perché Rudolf gliel’ha detto solo all’ultimo minuto e ormai è troppo tardi per provare a opporsi alla decisione: vivere lontano dalla città, gli dice, al verde e nell’aria pulita, è il loro sogno da quando avevano 17 anni. 

Nelle riunioni successive tra ufficiali, Rudolf è a capo dell’operazione che gestirà un massiccio afflusso di ebrei ungheresi, trattato come se fosse il carico di una merce qualsiasi. Riferendo la notizia dell’approvazione di Himmler, esclama: “Sono felice come una Pasqua”. Gli scorci di burocrazia e applicata allo sterminio genocida fanno gelare il sangue.

Per ultimo arriva finalmente il momento in cui Glazer ci mostra ciò che c’è al di là del muro di Auschwitz, con un cambio di tempo e di direzione che ricorda Notte e nebbia di Alain Resnais, del 1956. La natura ordinaria di tutto ciò che abbiamo visto succedere intorno a ciò che vediamo in quel luogo è nauseante. L’esplosione della musica di Levi suona come un allarme: ci impone di non abbassare mai la guardia di fronte ai cicli della storia.