“Uno dei migliori film degli ultimi tempi? Get Out di Jordan Peele”. Quale dichiarazione migliore per capire a pieno le intenzioni di Sébastien Vanicek, anno 1989, che al suo primo lungometraggio mette al centro una palazzina nella periferia francese che, a poco a poco, si riempie di ragni sempre più grandi. Vermin, film di chiusura della Settimana della Critica, è un insolito horror movie con aspirazioni da blockbuster. In fondo non è un caso che, oltre al regista di Us e Nope, Vanicek cita anche Steven Spielberg, e lo ricorda come l’ultimo ad aver diretto “uno dei più famosi film con dei ragni”.
Impossibile non partire con questa domanda: ha considerato il fatto che molte persone non vedranno il film per paura dei ragni?
I produttori mi hanno chiesto lo stesso. A quanto pare sembra che almeno una persona su tre soffra di aracnofobia. Significa che davvero molta gente potrebbe decidere di non vedere Vermin. Allo stesso tempo credo che ad oggi il cinema debba essere vissuto come un’esperienza. Solo così la sala può sopravvivere. Andare al cinema è diventato costoso, perciò volevo offrire al pubblico un’opera che fosse il più immersiva possibile. Per questo spero che le persone aracnofobiche vivano il film come una sfida o una provocazione. Un po’ come col bungee jumping.
Ma cosa si nasconde dietro ai ragni?
La paura dell’ignoto, la paura dell’altro. Credo che i ragni siano l’espediente migliore per trattare l’argomento. La metafora dietro alla storia è evidente: siamo spaventati da ciò che non conosciamo o che temiamo possa farci del male. E, per veicolarla al meglio, si può utilizzare anche la formula dell’intrattenimento.
Quindi bisogna stuzzicare il pubblico?
Bisogna divertirlo. E se ci riesci, puoi fare di tutto. La gente deve godersi il film. Quindi, lo scopo primo, è incollare lo spettatore allo schermo, poi si possono cominciare a rivelare tutti gli strati del racconto. Vermin contiene al suo interno diversi livelli: c’è un aspetto ironico, uno spaventoso, anche uno commovente.
Cosa ha pensato quando Vermin è stato selezionato per essere l’evento di chiusura della Settimana della Critica?
Sono rimasto sorpreso. Tra l’altro, quando lo abbiamo mandato per essere selezionato a Venezia, non era nemmeno finito. Ma a quanto pare si sono fidati del messaggio della pellicola, che oltre ad essere un horror, contiene in sé un ritratto sull’attuale situazione delle periferie francesi, di come vivono i giovani in questi contesti e di cosa sta accadendo nel panorama politico del paese. E credo il film sia riuscito ad arrivare in maniera così diretta proprio perché non vuole essere di nicchia, ma è stato fatto per parlare al largo pubblico.
Come ha lavorato con i suoi attori, soprattutto per renderli credibili quando dovevano simulare di avere ragni sparsi ovunque?
Sono stato fortunato. Il merito è anche della casting director Constance deMontoy (Titane, Call My Agent, Niente di nuovo sul fronte Occidentale). Ho scritto un film sulla mia generazione, quindi volevo che anche gli attori ne facessero parte. Ho trovato persone che parlano la mia lingua, hanno gli stessi riferimenti culturali, guardano gli stessi film. Anche per ciò che riguarda i VFX, volevo qualcuno che fosse avvezzo al cinema contemporaneo e che, come me, avesse visto il making of de Il Signore degli Anelli o di Alien, così da essere consapevole che recitare in maniera spontanea con gli effetti digitali è possibile.
Cercava gli interpreti del futuro?
Cercavo grandi persone, oltre che grandi attori. Alla fine siamo diventati un piccolo gruppo di amici. Durante le riprese, ma a volte anche adesso, passavamo il tempo a giocare a Mario Kart o a divertirci insieme.
Non c’è stato nessun contatto con dei ragni veri?
Prima del film sì, era necessario. Li abbiamo incontrati, toccati, abbiamo osservato come si muovevano. Io per studiare come riprenderli, gli attori per capire come reagire alla loro presenza. Per alcune scene abbiamo usato quelli veri. A un certo punto erano diventati come dei cuccioli da compagnia. Anche se non posso negare che al principio è stato uno shock, alcuni erano davvero grossi. E con i VFX sarebbero cresciuti ancora di più.
La scena d’apertura di Vermin è forse uno degli esempi più classici per l’inizio di un film horror. Non trova?
Volevo rispettare i codici dei film di genere. Ogni horror movie presenta il mostro durante l’introduzione, insieme alla sua nemesi o agli antagonisti. Anche l’atmosfera desertica torna spesso, pensiamo all’inizio de L’esorcista. La metafora del film è già nella sequenza d’apertura, perché vediamo come anche i ragni, in verità, sono delle vittime della xenofobia. Vengono portati via dal loro luogo originario, strappati dal proprio ambiente per essere trapiantati in un edificio che non conoscono, non sapendo quali pericoli li attendono e iniziando a crescere per cercare di difendersi quando vengono ingiustamente attaccati.
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