Asteroid city. Difficile recensirlo, perché è al contempo il meglio e il peggio di Wes Anderson, regista raffinatissimo il cui immaginario complessivo è decisamente superiore alla somma dei fattori, pardon dei film, che il suo talento ha saputo creare. Una sorta di Magritte il cui apporto alla nostra fantasia, alla tavolozza dei colori della nostra mente, alla capacità di fertilizzare i nostri archetipi è immensamente più grande dell’apprezzamento che si può avere per le sue singole opere.
E seppure i puristi della sua cinematografia storceranno il naso, lo dimostra il fatto che se si esclude I Tenenbaum, film che è entrato nella storia del cinema e nel cuore degli spettatori indipendentemente dall’apprezzamento per il cineasta che lo dirige pur se figlio in purezza del suo talento e delle sue visioni, più facilmente per lui si parla del “suo” cinema più che delle singole opere. Perché la sua arte è uno stile preciso, codificato da lui stesso, in cui lui è lo chef di ricette che sono costanti variazioni sul tema delle sue ossessioni, che siano i rapporti umani tra esseri (soprav)viventi disfunzionali e costantemente con il broncio, o dialoghi barocchi e tanto raffinati quanto fini a se stessi, la cui eleganza è il motivo stesso della loro esistenza, proprio come il film stesso. Ogni suo film.
Asteroid City, la trama
Asteroid City (uscito negli Stati Uniti tra il 16 e il 23 giugno e in Italia dal 28 settembre) sullo spettatore non adepto – il cineasta di Houston ha un proprio culto, codificato al limite dello stereotipo è persino il suo pubblico, riconoscibile per i gusti estetici, per l’appartenenza a classi sociali agiate, per una cultura indie ma con brio – ha sempre lo stesso effetto. Una fascinazione che è al contempo familiare e stupita – qui si inizia con un treno in corsa e con colori che richiamano in pochi secondi quasi tutti i cromatismi e l’oggettistica della sua produzione -, che ti porta in questo racconto metacinematografico, metateatrale e sì, come sempre pure metafisico. Bryan Cranston con ironia fa da Cicerone in una piéce in cui un affermato drammaturgo (Edward Norton) ci introduce nella sua storia, quella di una comunità di scienziati e aspiranti astronomi, di outsider e dive, di famiglie spezzate fatte di piccoli geni, bambine capricciose, un nonno rassegnato alle sue parentele (Tom Hanks, delizioso) e un giovane vedovo disorientato ma infallibile fotografo, che si incontrano ogni anno accanto a un cratere profondo per la consegna di un premio, una borsa di studio, alle menti brillanti del domani che sappiano sognare guardando il cielo. Che siano avventure nello spazio o amori impossibili, poco importa. Tutto funziona in quello che più che un cast è un corpo di ballo, tanto è perfetta persino la musicalità dei dialoghi, così come i movimenti, a volte proprio danzanti, e forse l’alieno – sì c’è anche lui – più bello, dolce e buffo dai tempi di E.T.. Troppo bello, troppo indovinato, troppo.
Così tanto che lo spettatore diventa irrimediabilmente passivo, ipnotizzato da un’immaginario che muta per non cambiare mai davvero, che trova nuovi visi che in effetti sembravano aspettare solo Wes Anderson – un Hanks invecchiato, Maya Hawke, persino Margot Robbie che in un cameo ci tiene giusto a ricordarci che ha un talento fuori scala, ma poi capisci che sono solo contagiati dalla sua estetica – ma mai la capacità di scuoterti davvero. E, va detto, il buon Wes è migliorato tanto, trovando una solidità narrativa un tempo scombinata, indagando in questo caso in un soggetto anche affascinante, che è tutto incentrato sul senso di raccontare storie e al contempo di viverle. Il rapporto tra Augie Steenbeck e Midge Campbell, fotografo e diva, entrambi schiavi in modo diverso dell’immagine, che restituiscono con la perfezione che dentro di loro è bandita, è soave. Jason Schwartzman, suo attore simbolo, feticcio, veicolo e alter ego (cugino del Roman Coppola che è al fianco di Wes da sempre, qui anche nell’ideazione) è di una misura clamorosa nel reggere quel dialogo sul filo del vacuo che gioca continuamente tra realtà e finzione e così Scarlett Johansson, capace di dedicarsi con umiltà a un personaggio funzionale e dare, con una fissità dello sguardo e dell’espressione quasi eastwoodiano, il senso più profondo del film.
Asteroid City
Cast: Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Bryan Cranston, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Hope Davis, Steve Park, Rupert Friend, Maya Hawke (II), Steve Carell, Margot Robbie, Tony Revolori, Jeff Goldblum, Sophia Lillis, Willem Dafoe, Matt Dillon, Rita Wilson, Hong Chau, Fisher Stevens, Jarvis Cocker, Seu Jorge, Mellanie Hubert (II), Grace Edwards, Jake Ryan, Gracie Faris, Ella Faris, Sonia Gascón, Ethan Josh Lee, Brayden Frasure, Celia Bermejo
Regista: Wes Anderson
Sceneggiatori: Wes Anderson
Durata: 104 minuti
Cos’è (e chi è) un regista?
Il punto è che Asteroid City come quasi tutti i film di Wes Anderson finisce per lasciarti dolcemente estenuato, in un garbato disinteresse per il destino della storia, dei personaggi e delle metafore mai compiute perché probabilmente non così volute (in fondo del suo immaginario sono la cosa più banale). E, ma questo è un talento, sempre nell’attesa del prossimo film. Scommettendo che sarà un capolavoro, quando lo è la sua capacità di essere diventato un aggettivo indipendentemente dall’oggetto, dallo strumento film. Che nella sua forma di lungometraggio, in cui si ostina anche per l’amore dei suoi ammiratori, non sembra essergli davvero amico. Chi scrive alla fine di ogni suo film torna per qualche minuto a Hotel Chevalier: un corto di 13 minuti presentato a Venezia 15 anni fa, con Jason Schwartzman e Natalie Portman, un prequel de Il treno per il Darjeeling. Tredici minuti a fuoco, in cui estetica e narrazione non sono compagne legate da un amore annoiato, ma sodali inseparabili, un’opera sensuale e immaginifica. E la conferma che quell’immaginario ha bisogno di essere rinchiuso in un recinto, non solo temporale, stretto per esplodere in tutta la sua bellezza e potenza.
Ma così probabilmente farebbe solo grandi capolavori e non sarebbe un aggettivo. E chi può dire cosa sia meglio per un regista?
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