“Liberiamoci della società del superlavoro”. Una pubblicità per convincere la gente a smettere di lavorare. Una legge, la “pc off”, che impone di spegnere i computer negli uffici alle 18:00 in punto, per impedire fisicamente agli impiegati di operare oltre gli orari stabiliti. Succede in Corea del Sud, dove il lavoro – specialmente per chi ha più di cinquant’anni – è uno status. Di più: una condizione esistenziale, un’ossessione. Un modo per dire al mondo che il tempo della miseria è finito.
La Corea del Sud e il rapporto dei coreani con il lavoro è solo uno degli aspetti – e dei mondi – esplorati in After Work dell’italo svedese Erik Gandini (La teoria svedese dell’amore, The Rebel Surgeon, Videocracy, Surplus), in sala in Italia dal 15 giugno con Fandango.
Un documentario prodotto da Fasad Production AB con Propaganda Italia, RAI Cinema e Indie film, che viaggia attraverso quattro paesi – Corea, Kuwait, Stati Uniti e l’Italia – guidato da una sola domanda: come sarebbe la nostra vita, se ci liberassimo del lavoro?
“Ho voluto pensare al lavoro come un’idea, più che una necessità. Qualcosa che sta perdendo senso rispetto a 350 anni fa, all’epoca della rivoluzione industriale – spiega Gandini – Credo che sia arrivato il momento di ripensarlo. Completamente”.
Le macchine al posto dell’uomo
Liberarsi del lavoro: un’ipotesi meno utopica di quanto si creda, a voler dar retta ai profeti dell’avanzamento tecnologico. Secondo la ricerca The Future of Employment (Il futuro dell’occupazione), pubblicata nel 2013 dall’Università di Oxford, il 47% dei lavori statunitensi sarebbe ad alto rischio. La probabilità che nei prossimi vent’anni gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni perdano il lavoro a favore degli algoritmi è del 99%. Del 97% per i cassieri. Del l’89%, scrivono i ricercatori, per gli autisti di autobus. Senza contare i lavori creativi: “Quando abbiamo iniziato a immaginare il documentario, nel 2020, Chat GPT non c’era – dice Gandini – Pensavamo che la rivoluzione sarebbe cominciata con l’automazione. Invece i primi a scomparire saranno proprio i lavori creativi”.
In potenza, secondo il filosofo americano Noam Chomsky, la rivoluzione tecnologica è una liberazione: “La tecnologia ci deve liberare del lavoro. Può funzionare, a patto di usarla per affrancare le persone da lavori stupidi e permettergli di dedicarsi a qualcosa di creativo”. In pratica, secondo lo storico israeliano Yuvai Harari, è una condanna: “La battaglia che ci aspetta, quella da combattere, sarà contro l’irrilevanza. Peggio essere irrilevanti che sfruttati”.
E allora: che faremo, quando non avremo più bisogno di lavorare?
Il Kuwait: il lavoro, ma per finta
In Kuwait, tecnicamente, oggi il lavoro potrebbe non servire più. In effetti, secondo l’OMS, il Kuwait è il paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego: il sistema di distribuzione delle ricchezze petrolifere funziona come un reddito di cittadinanza di base, ma con un impegno lavorativo ’’simulato’’. Il risultato? Nei ministeri, dove venti persone sono chiamate a svolgere il lavoro di una sola, i dipendenti giacciono in una sorta di “parcheggio per lavoratori”, passando il tempo, semplicemente, sprecandolo.
Una inattività forzata che produce frustrazione, depressione, desideri autodistruttivi. “Speravo di trovare qualcosa di positivo lì, perché il Kuwait è un paese che ha tutte le opportunità per liberare le persone dalla necessità del lavoro – dice Gandini – Ma l’idea di fare a meno del lavoro è talmente forte che fa paura liberarsene. Piuttosto si preferisce far finta di lavorare, come se andare al lavoro fosse una specie di performance. Ed è tristissimo”.
Gli Stati Uniti: No Vacation Nation
Il viaggio negli Stati Uniti, terra di stakanovismo performativo per eccellenza, ci riporta a una società in cui l’85% delle persone, racconta After Work, “non hanno lavoro o ne sono profondamente insoddisfatti”. Il valore da salvaguardare, qui, è quello dell’efficienza: “Adolf Hitler? Un modello di efficienza perfetta”, ammette, dopo un istante di titubanza, un dirigente della società di analisi e consulenza Gallup. Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati: più della metà dei lavoratori non ha utilizzato tutti i giorni di ferie nel 2018, e il 24% ha dichiarato di non averne usufruito affatto. “Gli americani hanno un rapporto unico con il lavoro – spiega Gandini – Il concetto di sogno americano è stato a lungo associato all’idea di lavorare sodo e raggiungere il successo”. Successo che si paga ad alto prezzo prezzo: l’infelicità di una “no vacation nation”, un paese in cui la vacanza è un fallimento.
Il non lavoro in Italia e l’edonismo NEET
E in Italia? l’attenzione di Gandini si concentra inizialmente su un piccolo gruppo di persone iper-ricche, appartenenti a dinastie imprenditoriali industriali che hanno vissuto per diverse generazioni senza dover lavorare. “Volevo sfidare il cliché del ricco. L’ereditiera che racconto nel film conduce un’esistenza libera dal lavoro. Il confronto con la Corea, dove le persone devono essere aiutate dalla pubblicità a immaginarsi senza lavoro, è potente: questa donna si sveglia ogni giorno chiedendosi cosa voglia fare, allenandosi alla creatività”. Un aspetto che rende l’Italia ancora più interessante è il fatto che non siano sono solo i super-ricchi a non lavorare: all’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) in Europa, il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni (la media europea è del 16,5%). “Nel dibattito pubblico il fenomeno dei NEET, i ragazzi ‘inattivi’, si racconta facilmente come una catastrofe, con l’indignazione per il nullafacente, ‘lo sdraiato’. Ma a me piace capovolgere il discorso e provocare con un’idea politicamente scorretta: se stiamo cercando alternative creative all’etica del lavoro statunitense e coreana, diventa interessante anche una società come l’Italia, dove esiste una cultura del non lavoro. Forse abbiamo qualcosa da imparare anche da qui: da chi, per scelta, non fa nulla”.
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