Janet De Nardis, 45 anni, è ed è stata tante cose. Nata in Canada, ha studiato architettura a Roma e recitazione a Lima (la madre è peruviana, il padre italiano), per poi tentare la carriera musicale internazionale, un tour dopo l’altro, fino ad arrivare a esibirsi in Giappone, per i mondiali 2002, con il suo gruppo, le Finger Prints.
Per sei anni è stata la “signorina buonasera” di Rai2, poi è tornata alla musica, diventando il “caso” del Sanremo 60 di Antonella Clerici: fu ritenuta “non idonea” per via del provocatorio testo della sua canzone, Tanto paga Papi, rivolto – non proprio implicitamente – a Silvio Berlusconi.
Dopo essere tornata alla conduzione (Sky Arte, Sky Uno, Alice TV), De Nardis oggi arriva alla sua prima regia cinematografica. “È il sunto di quello che sono. Ogni cosa che ho fatto mi ha portata fin qui”, spiega la regista, che dal 5 ottobre ha accompagnato nelle sale italiane il suo debutto, il fanta-thriller Good Vibes. “Sapete quante volte mio marito (Mario La Torre, professore di economia ed estensore della legge sul tax credit nel settore cinema, ndr) mi ha detto che avrei dovuto provare? Ma non era il momento, dovevo sentirmi pronta. Dovevo arrivare dove sono oggi”.
Nel suo continuo riadattarsi, Janet De Nardis vede in Good Vibes non solo il sunto delle sue conoscenze artistiche, ma anche l’elaborazione di temi che sentiva di voler raccontare. “Sono una fan della tecnologia, mi tengo costantemente aggiornata (De Nardis è stata la fondatrice del Roma Web Fest, ndr). Ma mi rendo conto che c’è un problema di conoscenza del mezzo che dovrebbe essere superata. Un’ignoranza che genera violenza e confusione”.
Al centro di Good Vibes c’è un cellulare. O meglio una app in grado di copiare il contenuto di qualsiasi altro smartphone, così da scoprirne i segreti. Basta soltanto inserire un numero di telefono per avere accesso a foto, video, email, conti bancari. Il film racconta cinque storie con altrettanti personaggi, analizzando le conseguenze che la tecnologia può portare in ciascuna delle loro vite. Una deriva morbosa che ben si adatta al genere del fanta-thriller, scelto da De Nardis con gli sceneggiatori Mirko Virgili e Ersilia Cacace.
“Il fanta-thriller viene praticato poco in Italia. Una parte di Good Vibes è “fanta” perché l’oggetto principale è un telefono con un’app che non esiste, fortunatamente. Immaginate quante cose si potrebbero scoprire prendendo il telefono di Bill Gates? Il thriller, poi, è il contenitore in cui si mescola tutto. Mette in luce il potere negativo che può avere la rete e la necessità di un’educazione a internet e alle sue funzioni. Solo così saremo tutti al sicuro”.
Good Vibes, tra etica tecnologia e isolamento
Un’“etica della tecnologia”, come la definisce De Nardis, necessaria visto che “non sempre i ragazzi si rendono conto che online ci si può imbattere anche in qualcosa di terribile. Internet è una piazza. Agli studenti non servono dieci ore davanti al computer a scuola, gli occorre piuttosto imparare l’importanza della corretta circolazione dell’informazione e ad avere rispetto per i materiali sensibili”.
Un confine, la vita online e offline, che la regista cerca di bilanciare con discrezione: “Ognuno gestisce la propria popolarità come preferisce. Conosco tante persone che, nonostante i milioni di seguaci, hanno preferito chiudere i loro profili per l’odio subito sui social. Bisogna decidere quanto ci si vuole esporre e come. Può funzionare sia la formula Ferragni-Fedez, che quella più riservata. Io ho trovato l’equilibrio nel mezzo”.
In Good Vibes il discorso sulla tecnologia va di pari passo con quello sugli squilibri e sulla violenza di genere. “Spesso l’isolamento incide sul testosterone. Viviamo in una società che ha attraversato un lockdown, che ha costretto le persone a chiudersi ancora di più, fino a un solipsismo devastante che ha finito quasi per scollegarci dalla realtà”.
Prosegue la regista: “La solitudine può rendere alcune persone preda di individui pericolosi, che si approfittano di chi è più fragile per manipolarlo. Un dato preoccupante è che, in Italia, sono spesso conoscenti o familiari delle vittime a perpetrare questo tipo di orrori, fisici e psicologici. Per questo è importante sostenerci tra di noi, come mamme, sorelle, amiche. Fare comunità per permettere alle donne di mettersi al sicuro al primo semaforo rosso”.
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