La Calabria, sempre. Ma alle Barbados. Impegnato nel montaggio di Basileia, lungometraggio d’esordio della romana Isabella Torre, il regista italoamericano Jonas Carpignano, 39 anni, chiude la trilogia di Gioia Tauro (Mediterranea, A Ciambra, A Chiara) con un nuovo film, Isle of Splendor, ambientato in un’isola delle Piccole Antille a un’ora di motoscafo da Guadalupe.
Una storia originale, scritta da Carpignano per un progetto “più grande per budget e sguardo”, ma realizzato con lo stesso metodo. E con le stesse persone: “Faremo come sempre. Interverremo su una comunità locale, che frequento dal 2016, e lavoreremo con la gente del posto. Rispetteremo i loro ritmi, senza imporci. Avremo un cast corale e nessun attore professionista, a parte Koudous (Seihon, attore in tutti i suoi film, ndr). La troupe sarà di Gioia Tauro: sembra uno scherzo, ma andiamo a girare nella Calabria dei Caraibi, tra montagna e mare”.
A produrre è la Stayblack Productions – la società fondata da Carpignano con il padre Paolo, la compagna Isabella Torre e il produttore Jon Coplon – con un team di coproduttori internazionali (Svezia e Francia): le riprese inizieranno nel 2024.
Mentore del progetto, come per A Ciambra, è il regista Martin Scorsese, con cui Carpignano coltiva da anni una solida collaborazione: “Nel 2017 Scorsese ha aperto con una società brasiliana (la RT Features, ndr) un fondo di sostegno per giovani artisti, e Jonas è stato il primo a vincerlo” racconta Paolo Carpignano. “Per molto tempo non si sono conosciuti personalmente. Dopo aver visto A Ciambra ha voluto incontrarlo: ha parlato per due ore, facendo un’analisi precisa e puntuale del film. Jonas era sconvolto. Hanno girato insieme gli Stati Uniti per la promozione, quando A Ciambra era il candidato italiano per gli Oscar. Sarà con noi anche per Isle of Splendor”. Alla Stayblack, intanto, si lavora ad altri progetti: Basileia, I fratelli segreto di Federico Ferrone e Michele Manzolini, e un documentario sul neorealismo italiano – “in una prima fase di preparazione” – per la regia di Spike Lee.
Carpignano, vivere a Gioia Tauro
David di Donatello nel 2018, vincitore nel 2021 a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs con A Chiara, per il suo quarto film Carpignano avrebbe potuto scegliere strade commercialmente più allettanti. “Potevo bussare alla porta di Netflix negli Stati Uniti, ma ho voluto fare a modo mio, anche se è più complicato. Vorrei girare un film europeo: non penso che gli americani siano gli unici a poter raccontare altri posti nel mondo. La Battaglia di Algeri è italiano, anche se di italiano c’è solo Gillo Pontecorvo e la troupe. Perché oggi siamo convinti che un film sia italiano solo se è girato in Italia?”.
Il “metodo Carpignano”, fatto di improvvisazione, impegno e “pedinamento” neorealista, è frutto di un percorso iniziato nel 2010, quando il regista arrivò a Gioia Tauro da New York per raccontare la rivolta dei braccianti di Rosarno. Da quel momento dalla Calabria non se ne è mai andato. Anche ora, mentre è a Palermo con Torre e la loro bambina di 15 mesi, la sua presenza sul territorio è fortissima. “Non so se chiamarla factory, ma certamente a Gioia Tauro abbiamo creato una famiglia e una comunità. La gente del posto sa che la nostra realtà cinematografica fa parte del tessuto sociale. Rispetto ai tempi di Mediterranea, la “caccia al marocchino” non c’è più. Ma se devo giudicare l’impatto del cinema sul territorio, come metro di paragone guardo la vita di Koudous, decisamente migliorata”.
Da Mediterranea a Checco Zalone
La storia di Koudous è nota: arrivato in Italia dopo un viaggio disperato attraverso l’Africa, la Libia e il Mar Mediterraneo, era un bracciante e oggi ha un agente, un curriculum televisivo, un film con Checco Zalone. La sua vita è cambiata. Quella degli altri meno: “Prima, nei campi, si lavorava 8 ore al giorno per 23 euro, adesso per 40. Ma ottenere i documenti è sempre difficile” racconta Koudous in videochiamata, all’ombra dell’unico albero in una distesa assolata. Vive a Gioia Tauro, in una casa condivisa con Carpignano, ma è tornato per qualche mese in Burkina, dopo aver raccolto denaro per costruire tre scuole nel suo villaggio. “Meglio studiare internet che andare a morire in Libia. Ci ho messo un anno ad arrivare in Italia, ho visto persone morire, sono salito su una di quelle barche. Quando hanno fatto vedere Mediterranea in Nigeria, in Egitto e in Tunisia, ero orgoglioso. Quel film è la mia storia”.
La tendopoli come set
Koudous non è l’unico ex bracciante ad aver aderito alla “factory” di Gioia Tauro. Da Mediterranea arriva anche Didier Njikam, nel prossimo film di Matteo Garrone Io Capitano, e Ibrahim, altro volto ricorrente nella cinematografia del regista.
Originario del Burkina, 42 anni, Ibrahim continua a lavorare nei campi: la sua specialità è il kiwi – lavoro massacrante: 800 piante ogni ettaro di terra, le radici sono così delicate che vanno piantata con un cucchiaio – e prima di arrivare in Calabria ha girato tutta l’Italia in cerca di lavoro: da Napoli a Lecco, da Verona a Foggia, Brindisi, Torino, poi a Gioia Tauro in una villa confiscata alla ‘ndrangheta, infine nella famigerata tendopoli di San Ferdinando. Oggi ha una casa, una bici elettrica, l’aria condizionata, un lavoro. Parla sei lingue, in tv guarda Maria De Filippi e al cinema (lo dice senza ironia) è un fan di Titanic.
È grazie alla sua mediazione che Isabella Torre, con la troupe di Basileia, è riuscita a girare, lo scorso inverno, proprio nella tendopoli. Un’impresa: “Noi andiamo là pagati, con uno stipendio, e accanto a noi c’è gente che muore di fame. Ora è peggio di prima. Nessuno controlla: chiunque può farsi una baracca e restare. È una bomba pronta a scoppiare. La gente sta troppo male”. Dentro ci vivono 3000 persone, le condizioni di vita sono estreme: a marzo ci si scalda ancora con il fuoco, bruciando la legna raccolta nei campi.
Carpignano e La Ciambra
Un territorio complicato, quello di Gioia Tauro, che nel giro di 13 anni Carpignano ha trasformato in un set a cielo aperto. Mettendo in scena, letteralmente, tutto ciò che trovava: un magazzino agricolo come teatro di posa, una sala slot come centro di raduno per le comparse, la foce del fiume Budello come location per lo sbarco dei migranti in Mediterranea, girato in spiaggia montando le luci sull’ecomostro in cemento. Davanti alla scuola elementare c’è il centro operativo della Stayblack: riunioni di sceneggiatura al bar, accanto alla Kebabberia Nonna Angela (riuscito esperimento di sincretismo gastronomico). Tutto è set: la paninoteca, la panetteria, la scalinata dell’ufficio postale. Problemi a Gioia Tauro, nessuno. Ma fuori dal paese, un giorno, la troupe è stata presa a bottigliate perché “noi siamo quelli che se la fanno con i neri “riassume Nicola Oliva, produttore esecutivo di tre film di Carpignano e di Basileia.
La Ciambra, il ghetto rom nella periferia di Gioia Tauro, è stato protagonista dell’omonimo film di Carpignano, interpretato dagli abitanti del quartiere. Concluse le riprese la loro vita è tornata ai margini della legalità, seppure con un miglioramento: l’istituzione di uno scuolabus per garantire il servizio scolastico ai minori.
Proprio il rapporto di Carpignano con la Ciambra è stato uno dei fattori alla base della nascita del Gioia Tauro Film Festival, la rassegna organizzata tra il 2015 e il 2019 nella parte antica del paese. L’anima del progetto è il presidente dell’associazione Gioia 3.0 Maurizio Galluccio, che di mestiere monta reti a metano ma dal 2012 si adopera per portare il cinema in città. Ha cominciato proiettando film per strada, su un lenzuolo. L’ingresso nel progetto di Carpignano ha cambiato tutto: “Un giorno vedo Jonas, questo ragazzo con i dread e le infradito che saluta tutti e se ne va in giro con gli zingari della Ciambra. E penso: mi piace”.
Il Gioia Tauro Film Festival e la nascita del movimento
Dalla collaborazione fra i due nasce la rassegna: 300 sedie prestate dal comune, le luci dei lampioni svitate a mano, il tappeto rosso comprato dai cinesi, le candele in strada, fiumi di gazosa al caffè serviti al bar all’angolo (i proprietari sono gli zii di Swamy Ruotolo, attrice in A Chiara). In platea: gente del posto, gente del cinema (Alice Rohrwacher ha girato qui il suo film d’esordio, Corpo Celeste), vecchie conoscenze di Carpignano (i registi Benh Zeitlin, candidato all’Oscar per Re della terra selvaggia, e Crystal Moselle, regista della serie HBO Betty) e una delegazione nutrita dei rom della Ciambra.
“Mi hanno consigliato di scrivere un manifesto, una cosa alla Dogma (Dogma 95, il movimento creato dai danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, ndr). Ma annunciare la nascita di un movimento mi sembra una forzatura. Sarà la storia a dire se, con questo lavoro, abbiamo fatto qualcosa di buono. Nel Mediterraneo oggi si muovono tante realtà diverse e non ho la presunzione di definirle “movimento”. Quello che noto è una tendenza comune a coinvolgere le persone e le risorse sul territorio. Linguaggi diversi, metodologia simile”.
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