Elegantissimo nel suo completo color nocciola e cappotto scuro, Jerzy Skolimowski osserva tutti con uno sguardo attento e profondo, ma è come se non vedesse nessuno, a una distanza incalcolabile dai presenti.
Il regista, nel corso della sua carriera premiato a Berlino, Cannes e Venezia, è a Roma per inaugurare la rassegna “Grandi classici del cinema polacco”, all’interno del CiakPolska Film Festival, dal 14 a 19 novembre. E con la sua magnetica presenza riesce a riempire una sala intera del Palazzo delle Esposizioni, per la proiezione di Segni particolari: nessuno (1965).
Un film, che, afferma, è anche “il più primitivo, il più povero” da lui mai realizzato, nel corso dei quattro anni di scuola di cinema. Quando la pellicola importata era la cosa più cara e più preziosa per uno studente e Skolimowski, per non sprecarne nemmeno un centimetro rinunciava ai ciak, trascrivendo i cambi di scena a mano.
Per questo, quando alla notizia che la rassegna sarebbe stata aperta proprio dal suo film di debutto, perché considerato uno dei classici del cinema polacco ed europeo, ha “avuto i brividi”.
Senso dell’umorismo
“Se proprio volete cercare un capolavoro tra i miei film, quello che tranquillamente potrebbe essere annoverato tra i classici del cinema è l’ultimo, Eo. E vi prego di cogliere il mio senso dell’umorismo”, ha affermato a proposito dell’opera del 2022, vincitrice del premio della giuria a Cannes (pari merito con Le otto montagne).
Da Pinocchio e Balthazar fino a Eo
Eo è l’asino di un circo polacco fallito dopo le proteste animaliste. Diventa così protagonista di un viaggio attraverso l’Europa, in cui ogni incontro con l’essere umano, contrapposto alla natura, è crudele, doloroso o deludente. Il primo riferimento, quello più diretto del film, è all’opera di Robert Bresson, Au hasard Balthazar (1966), in cui è proprio un asino a diventare il catalizzatore di ogni male, fisico e figurato. Una figura quasi cristologica, in parte ripresa da Skolimowski.
Una figura ibrida, forse più simile a Pinocchio che a Balthazar, affatto umana ma con un’anima. La si vede, la si percepisce, la si sente, probabilmente perché si è abituati a cercarla negli occhi altrui. E Skolimowski lo sa, per questo è sugli occhi dell’asino che insiste di più, come afferma rispondendo a una nostra domanda: “Oserei dire che si è trattato di un sentimento a prima vista, appena ho guardato negli occhi dell’asino. Ha ricambiato il mio sguardo con il suo. In quello sguardo ho riconosciuto una visione del mondo comune alla mia. Una malinconica riflessione sul nulla. E vi prego di riconoscere anche in questa asserzione un po’ del mio senso dell’umorismo”.
Un cinema che non ha bisogno di parole
Il cinema sperimentale, avanguardista, di Skolimowski si trasforma nel tempo per restare sempre fedele a se stesso, come accade a ogni grande autore. Non è più il cinema “povero e primitivo” dei primi anni Sessanta, ma afferma il regista: “La mia identificazione con un’opera non è mai stata così forte come in Eo. Nemmeno nel mio primo film, in cui ero l’unico attore”. “L’unica cosa che mi interessava sinceramente in Eo”, prosegue, “era l’asino, di cui non ho perso nemmeno un frammento di pellicola in sala montaggio, rinunciando e tagliando tutto il resto”.
Non sono solo le buffe e dolci espressioni involontarie dell’animale a creare questa connessione. Sono le frequenti inquadrature sugli occhi neri e profondi. Sono le soggettive di Eo, che aprono la visione a un punto di vista estraneo, non umano. È il suo respiro, costantemente evidenziato dal montaggio sonoro. È il rumore degli zoccoli o quello del suo mantello quando viene accarezzato. O ancora la fotografia, i giochi di luce e il montaggio. Cinema al suo picco: una storia di immagini e suoni, che non ha bisogno di essere spiegata a parole, perché si fa percepire attraverso i sensi, i gesti e i movimenti.
Non ha altra lezione da impartire, Skolimowski, che ha già detto tutto con i suoi film. Così riprende il capotto scuro e, sempre con la stessa eleganza, ci stringe la mano e se ne va.
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