“Che strano modo di vivere ha il mio cuore indipendente, un cuore che non posso comandare, vive perso tra la gente, ostinatamente sanguinante”: sono le parole di Strange Way of Life, fado portoghese che dà il titolo al nuovo cortometraggio di Pedro Almodóvar. Una canzone che risuona fin dai titoli di testa, cantata poeticamente dall’attore ventiquattrenne Manu Ríos: il brano è il primo protagonista dei 30 minuti di film, presentati a Cannes e distribuiti in sala dal 21 settembre da Teodora Film (e prossimamente su Mubi). A partire da quel testo, e dalla sensualità della sua musica, Almodóvar ricostruisce l’incontro fra due vecchi amanti, separati dal deserto e dalle rispettive scelte di vita.
Jake (Ethan Hawke) è uno sceriffo, Silva (Pedro Pascal) è un fuorilegge che vive ai margini della città. Due mesi di passione, venticinque anni prima, li hanno legati per sempre l’uno all’altro, lasciandoli però senza il coraggio di vivere fino in fondo quell’amore.
Almodóvar rimette insieme i loro due primi incontri, ricostruendoli in parallelo. Il desiderio che esplode nel pieno della giovinezza (quella degli attori Jason Fernández e José Condessa) e l’impazienza di un nuovo abbraccio, mista alla rabbia e alla delusione della separazione. A dividerli ancora, però, è un dilemma morale. Quello di un padre, Silva, che deve proteggere a ogni costo la vita del figlio (George Steane), minacciata dalla legge dello sceriffo.
Il filtro glam di Saint Laurent
Le emozioni in scena in Strange Way of Life sono quelle di una classica tragedia umana, fatta di amore e morte, sentimenti contrastati e profondi. Si attende che da un momento all’altro colpiscano e feriscano il pubblico, eppure restano su una superficie patinata da melodramma. Sensazione amplificata dallo “zampino” di Yves Saint Laurent, la casa di moda che co-produce il cortometraggio insieme a El Deseo di Almodóvar, e che contribuisce a ridurre il corto a una serie di quadri, in cui ciò che si immagina è più potente di ciò che viene mostrato sullo schermo.
Hawke e Pascal si muovono su un set statico, glamour, con un’estetica quasi teatrale: “finto”, anche se non falso. A sporcare questa bellezza immobile è solo la terra del (vero) deserto di Tabernas, in Almería, e il sangue che, alla fine, scorre per riportare i due uomini insieme.
Cosa possono fare entrambi, bloccati in un ranch, se non “prendersi cura l’uno dell’altro”? È così che Almodóvar immagina la sua risposta a I segreti di Brokeback Mountain, film di Ang Lee diventato un classico Lgbtqia+: una reinterpretazione personale della mascolinità tossica del western, che prova finalmente ad arrendersi all’amore.
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