Werner Herzog vuole andare nello spazio. I suoi occhi ridono come un bambino mentre racconta che ha fatto formale domanda presso un’impresa giapponese: “Purtroppo hanno respinto la mia candidatura”, dice il grande regista, l’uomo a cui dobbiamo capolavori assoluti come Fitzcarraldo e Aguirre, furore di Dio, e documentari che hanno rivoluzionato l’arte di raccontare il mondo per come è, per come appare o per come lo immaginiamo. La “verità estatica”, la chiama lui, che si tratti dell’“ultimo giapponese” Hiroo Onoda (che per 29 anni resistette sull’isola filippina di Lubang rifiutandosi di credere che la guerra fosse finita), delle peregrinazioni di Bruce Chatwin, degli abissi dei vulcani, di piloti abbattuti nel Vietnam o dell’anima dei detenuti nel braccio della morte.
Il viaggio, l’avventura, il toccare con mano l’estremo (nel 1974 camminò a piedi da Monaco fino a Parigi attraversando anche “tormente furibonde”, convinto che solo questo atto di apparente follia avrebbe salvato la vita di Lotte Eisner, critica cinematografica e amica, gravemente malata), il dare voce a “ribelli disperati e solitari che sanno che la loro rivolta è condannata al fallimento ma continuano a lottare”: Herzog ha portato al mondo un cinema che non è solo cinema e che è diverso da tutto il resto del cinema del mondo. Che è innanzitutto guidato dalla sua voce, una voce ipnotica fatta di parole sempre dense, con quell’accento tedesco-bavarese che non è solo un marchio di fabbrica, è una specie di totem iconico riconosciuto come tale in grandi produzioni americane come Jack Reacher, con Tom Cruise, e come lo “starwarsiano” The Mandalorian, dove Herzog fa ruoli da cattivissimo.
“I miei libri saranno ricordati più dei miei film”, ripete: affermazione forte, detta dall’uomo che Truffaut definì “il più grande regista vivente”. Qui a Bellinzona, dove l’abbiamo incontrato, è venuto al Festival letterario Babel come ospite d’onore e per parlare di Ognuno per sé e Dio contro tutti, suo libro di memorie freschissimo di stampa per conto di Feltrinelli. Dove racconta, vagando avanti e indietro nel tempo in una timeline assolutamente herzoghiana, la sua vita, i suoi pensieri, i suoi film. Giacchetta bavarese, pantaloni con le tasche esterne (impossibile pensare che abbia 81 anni), Herzog prende il libro in mano per controllare se finisce senza un punto, dato che lui, come racconta nell’introduzione, aveva interrotto la scrittura d’improvviso, di colpo. Partiamo da qui.
Ognuno per sé e Dio contro tutti. Era il titolo originario del film che in italiano si chiamava L’enigma di Kaspar Hauser, 1974. Suona un po’ come una dichiarazione di visione del mondo.
Più che altro trasmette l’idea di me come combattente solitario. È vero che nel mio lavoro ci sono sempre stati i team tecnici, la famiglia, gli attori, i collaboratori, non sono mai stato davvero solo: eppure è vero che ho vissuto momenti di profonda solitudine.
Però si pensa anche a Fitzcarraldo (dove il protagonista, interpretato da Klaus Kinski, trasporta una nave sopra un monte in mezzo alla giungla amazzonica, ndr). Quanto c’è di Fitzcarraldo in lei?
Non è un caso che io abbia fatto quel film, ma non sono certo l’unico ad essere mosso dalla ricerca, da una sfida, da un’urgenza… È come Moby Dick, è la caccia della balena bianca. È chiaramente una grande metafora, così come è una grande metafora portare una nave su una montagna nella giungla… di cosa a tutt’oggi non lo so (ride).
Sarebbero un gran bel film anche alcune situazioni che descrive nel suo libro, a cominciare dalla sua gioventù e infanzia – lei parla addirittura di “infanzia arcaica”, segnata da povertà, freddo, condizioni estreme. Ha mai pensato di girare qualcosa di esplicitamente autobiografico?
La vita è vita, e quel che si manifesta sotto forma cinematografica è qualcosa di molto diverso. Io tenterò di fare il possibile affinché dopo la mia morte a nessuno venga permesso di fare un film sulla mia gioventù. Ovviamente questo non lo posso impedire del tutto, perché esiste qualcosa come la libertà d’espressione, che io devo rispettare. Ma sono sicuro che arriverà un qualche cretino (lo dice in italiano, ndr) che vorrà fare un film sulla mia vita. Questo non lo potrò impedire del tutto. Ma quello che sarà nel mio potere di impedire, lo impedirò.
A proposito vita e gioventù: le manca Klaus Kinski?
No.
E da un punto di vista cinematografico?
No.
Bene, passiamo a qualcosa di completamente diverso (Herzog e Kinski si conobbero da ragazzi, fecero insieme cinque film, tra cui Fitzcarraldo e Aguirre, ma il loro rapporto fu, a dir poco, travagliatissimo. A Kinski il regista dedicò nel 1999 il documentario Il mio nemico più caro, ndr). Lei ha fatto l’attore in film come Jack Reacher o nella serie The Mandalorian: dove interpreta dei cattivi veramente tremendi.
Vede, tutto quello che a che fare con il cinema mi rende felice: fare la regia, scrivere la sceneggiatura, occuparmi del montaggio, lavorare come attore… mi riempie di gioia. E faccio il bad guy perché mi riesce bene. Non potete infilarmi in una romantic comedy, proprio non funzionerebbe. Sono piazzato bene in quel film e in quella serie, il casting era ottimo, il soggetto era buono, per questo ho accettato volentieri. So che ero bravo: il pubblico si ricorda ancora di quelle interpretazioni.
Nel libro lei va in su e in giù nel tempo: è una cosa che oggi si trova spesso nei film e nelle serie, a cominciare da quelli della Marvel. Cosa ne pensa di questo tipo di cinema e di televisione?
È del tutto legittimo che ci sia. Ha a che vedere con fantasia, in parte anche con una fantasia molto infantile, in tutto il mondo il pubblico vede con piacere questo tipo di film. Io faccio un cinema che ha altre prospettive. Ma possono coesistere, senza problemi.
Lei vive da tempo a Los Angeles. Avrà seguito gli scioperi del sindacato degli attori, la Sag-Aftra. Cosa ne pensa?
Non li seguo gli scioperi, li faccio, perché sono membro di Sag-Aftra. Diciamo che era inevitabile. E questo perché negli ultimi anni si sono avuto cambiamenti fondamentali, nella produzione e nella distribuzione, mutamenti che ora devono necessariamente essere affrontati nella collaborazione tra produzione, attori e sceneggiatori. Io sono a favore dello sciopero. Da attore non voglio che uno Studio possa scannerizzare il mio volto e la mia voce e che mi riproduca digitalmente nei prossimi dieci sequel di Jack Reacher. L’altra grande questione è la partecipazione ai guadagni secondari in aree esterne agli Stati Uniti: gli Studios o Netflix pagano i cosiddetti residuals per il mercato americano, ma hanno un pubblico molto più grande in Corea del Sud, in Giappone, in Brasile, in Italia e ovunque. È giusto che un attore dica che se c’è una fetta di pubblico maggiore fuori dagli Usa vengano pagati i residuals anche da quelle aree. Questa lite deve essere combattuta fino alla fine. Deve essere chiarita adesso, non tra dieci anni.
L’intelligenza artificiale: è rischio apocalittico o potenzialità?
No, non ha niente di apocalittico, né ha a che fare con gli attori se non dal punto di vista della protezione della propria individualità, della protezione della propria esistenza, del proprio volto e della propria voce.
Lei afferma di non stare sui social media. Però sui social media capita spesso di imbattersi in lei. Per esempio quel video in cui lei, nella giungla, la definisce un luogo di “overwhelming murder” (omicidio travolgente), lo si trova spesso.
Quello è vero. Ma si trovano molto più spesso dei falsi completi o imitazioni della mia voce nei quali do consigli di vita su YouTube: ci sono almeno trenta miei alias là fuori, nel mondo digitale. La rappresentazione del sé è cambiata molto oggi, posso conviverci.
A proposito di “overwhelming murder”. Cosa è la natura per lei?
Ah, ma su questo dovremmo sederci assieme e parlare per quarantotto ore di seguito! Ma di sicuro si può dire che non ho una concezione romantica della natura. Ogni tanto succede che qualche critico che non sa bene come classificarmi mi definisca un romantico, ma è completamente sbagliato. Per cui non guardatevi solo l’estratto dell’“overwhelming murder” che c’è su YouTube, bensì l’intero film di Les Blank, Burden of Dreams (un documentario girato durante le riprese di Fitzcarraldo, ndr): un film molto buono peraltro, quella citazione ne è solo una sua piccola parte.
Nel 1992 lei girò Apocalisse nel deserto, dopo la prima guerra del Golfo. Ha pensato di fare un film sull’Ucraina oggi?
No. Vede, la prima guerra del Golfo finì nel giro di pochi giorni, non era la guerra in sé che m’interessava come regista. Quel che mi affascinò fu che venne incendiato ogni singolo pozzo di petrolio nel Kuwait. Si tratta di 815 sorgenti di petrolio: improvvisamente ci trovavamo dinnanzi un paesaggio che non era più riconoscibile come il nostro pianeta. Per questo non nominavo né il Kuwait né Saddam Hussein, piuttosto mostravo una specie di film di fantascienza che non poteva esser stato girato sul nostro pianeta. Una pellicola sull’Ucraina, invece, la dovrebbero fare dei corrispondenti di guerra.
In effetti chiedevo dell’Ucraina perché mi era venuto in mente il suo documentario su (e con) Gorbaciov. Gorbaciov sembra uscire anche lui dalla sua galleria di figure tragiche, no? E potrebbe fare un film analogo su Frau Merkel?
(Ride). No, non mi interessa affatto. Lo devono fare altri. Nel caso di Gorbaciov la tragedia è che l’Occidente non comprese e non colse i segnali. Troppe le occasioni mancate: come quando Gorbaciov ritirò unilateralmente 400 mila soldati dalla Polonia e 5000 carri armati, una decisione che l’Occidente non seppe onorare, riempendo subito con la Nato il vuoto che si era creato, in aperto contrasto con la promessa fatta. Né fu preso sul serio Putin quando, nel 2003, aveva chiesto che la Russia venisse accolta nella Nato, e che successivamente al Bundestag tenne un discorso nel quale parlò di una unica comune casa europea, dagli Urali fino al Portogallo. Fu ignorato. Molte sono state, purtroppo, le occasioni mancate.
Nel libro lei scrive che “solo i poeti possono tenere insieme la Germania”. E lei parla anche del giorno nel quale cadde il Muro di Berlino. Non sarebbe anche questo un film interessante?
No, è politica e deve rimanere politica. Ma, in effetti, non fu tanto un evento politico che sia stato organizzato da politici, la riunificazione è stata una travolgente volontà di popolo. La caduta del Muro aveva totalmente colto di sorpresa l’élite politica della Ddr. Anche all’Ovest la politica si era rassegnata a non vedere realizzata la riunificazione. Ora è solo la nostra cultura, la nostra lingua, sono i poeti – the poets – che possono tenere insieme la Germania. All’epoca io camminai a piedi intorno a tutte le volte delle frontiere tedesche, lungo tutte le sue contorsioni, ma non potei finire la marcia perché mi ammalai. Dì lì a poco il Muro cadde. Forse vuol dire che alla fine è servita, quella mia camminata!
Al recente festival di Venezia c’erano molti film sui vampiri, per esempio El Conde di Pablo Larraìn, poi quello sui “vampiri umanisti” e similari … Ovviamente i vampiri c’erano anche quando lei girò Nosferatu, ma oggi si vedono ovunque. Nei film commerciali come nei film d’autore.
Mi limito a segnalare il fatto che sia un genere che non si riesce ad ammazzare. Perché offre al cinema un terreno estremamente fertile. Per le fantasie cinematografiche. Per le fantasie oscure. Ecco perché vivrà a lungo. Ed è bello che esista.
Più volte lei si è definito più un soldato che un artista. Quanto ha a che vedere questo con il cosiddetto “ultimo giapponese”, Hiroo Onoda (al quale Herzog ha dedicato il suo precedente libro, Il crepuscolo del mondo, sempre Feltrinelli, ndr)?
Attenzione, quando uso la parola soldato parlando di me non intendo niente di militaresco, ma parlo di certe qualità, come lealtà, senso di responsabilità, senso del dovere, capacità di tenere un avamposto che quasi tutti gli altri hanno abbandonato. Per un soldato reale come Hiroo Onoda la situazione era tutt’un’altra: aveva l’ordine di difendere una piccola isola filippina fino al ritorno dell’esercito giapponese. E continuò a condurre la seconda guerra mondiale per altri 29 anni dopo la sua fine. Ma fu un tragico equivoco: perché credeva che il conflitto non fosse finito? Le sue osservazioni erano assolutamente corrette: all’inizio degli anni cinquanta vedeva i bombardieri volare sopra di lui, ma era già la successiva guerra degli americani in Corea, alcuni anni dopo vide i B-52, ed era il Vietnam. La sua conclusione era che il conflitto stava andando avanti, la sua tragedia fu che non conosceva il quadro più ampio, che non era in grado di dare il giusto ordine ai segnali di guerra.
Torniamo sull’overwhelming murder: com’è il mondo oggi?
Non parlo solo di “overwhelming and collective murder”, parlo di armonia, ma non c’è armonia nell’universo: è una leggenda. Nell’universo c’è un caos travolgente e da parte nostra c’è ostilità nell’approccio allo spazio. È il problema quando vogliamo portare gli astronauti su Marte, o quando vogliamo colonizzare Marte con un milione di persone. È una visione troppo aggressiva. Non succederà. È un sogno impossibile. È un’utopia tecnica.
Perché, non vorrebbe andare nello spazio? (Oltre ad un film di fantascienza, The Wild Blue Yonder, da lui diretto, Herzog ha fatto da voce narrante ad una serie documentaria sullo spazio, Last Exit: Space, diretta da suo figlio Rudolph, ndr).
Sì, certo! Ma solo brevemente, e comunque manderei ogni giorno una poesia sulla Terra e invierei ogni giorno un piccolo film. Ho pure presentato domanda formale presso un’impresa giapponese, che voleva circumnavigare la Luna per poi tornare sulla Terra. Purtroppo hanno respinto la mia candidatura.
E in attesa di andare nello spazio cosa fa?
Ho due progetti di film, il primo sarà di finzione, probabilmente lo girerò in Inghilterra. E dopo le mie memorie ho già terminato di scrivere un altro libro, dal titolo The Future of Truth, “il futuro della verità”: uscirà in tedesco in primavera, ci vorrà almeno un anno per le traduzioni. Si sa, le grandi case editrici si muovono lentamente. Come gli iceberg.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma