Ermal Meta: “Mi piacerebbe che il mio libro diventasse una serie tv con attori albanesi, tedeschi e americani”

Domani e per sempre è il suo esordio letterario e vorrebbe trasformarlo in un opera cinematografica o televisiva con Roman Polanski alla regia ed Erica Bana attore protagonista. Ma "la musica è stata la mia alba perenne, mi ha salvato la vita in tanti modi" e rimane il suo grande amore. Il sogno? Un duetto con Thom Yorke

Sta per uscire con nuova musica e nel frattempo si gode il successo che ha ottenuto il suo primo romanzo Domani e per sempre, edito da La nave di Teseo, che sta per essere tradotto e pubblicato in diversi Paesi. Ermal Meta, il cantautore albanese naturalizzato italiano, vincitore del Festival di Sanremo nel 2018 in coppia con Fabrizio Moro, ha messo in secondo piano la musica per dedicarsi anima e corpo alla scrittura.  “Ho cominciato a mettere le basi per il nuovo romanzo ma sto lavorando anche al nuovo disco.  A breve dovrebbe uscire il mio nuovo singolo. Negli ultimi due anni mi sono concentrato più sul romanzo che sulla musica, poi mi sono detto “sei un musicista?” quindi devi fare canzoni” ci racconta Meta, fresco di nomina nel Comitato artistico di Musicultura 2023 insieme a Dacia Maraini, Sandro Veronesi, Roberto Vecchioni e Carmen Consoli.

La pandemia è stata il motivo del blocco artistico di Meta che non riusciva più a comporre musica ma nello stesso tempo cercava rifugio nella memoria e così è nato il suo primo romanzo che vorrebbe trasformare al più presto in un film o una serie tv. “Mi sono reso conto, a un certo punto, che le cose con la musica stavano andando un pò a rilento dentro di me e ho deciso di dare una sterzata da un’altra parte. Scrivere un romanzo è stato molto bello, non mi aspettavo che avrebbe avuto questo successo, e mi piacerebbe farlo diventare qualcosa di cinematografico. Sto avendo anche dei contatti con delle produzioni. Ma la musica rimane il mio primo grande amore”.

Non sperava che il pubblico la apprezzasse anche in questa sua nuova veste?

Sinceramente non pensavo nemmeno di pubblicarlo. L’ho scritto perché non riuscivo a scrivere canzoni, non riuscivo più a scrivere musica, perché era iniziato il lockdown e figurati se stavo a pensare alla musica. Era impossibile, a casa mia sentivo sirene di ambulanza in continuazione. In un clima così era impossibile pensare, almeno per me, alla musica. Mi sono confrontato anche con vari colleghi perché pensavo che fosse una cosa solo mia.

Che risposte riceveva?

Ricordo che chiedevo “Ma sta succedendo anche a te questa cosa? Mi rispondevano “Siamo paralizzati”.

Si è più emozionato quando ha tenuto per mano il suo primo cd oppure il suo libro?

Il mio primo cd. È una cosa imparagonabile. Sono cresciuto con la musica, ho sempre sognato di fare quella cosa lì. La musica è stata la mia alba perenne, costantemente, mi ha salvato la vita in tanti modi. Ho iniziato a fare musica da piccolissimo, prima a suonarla, poi a comporla, facendo sicuramente cose molto brutte fino ad una certa età, poi via via meno brutte e infine è diventata un lavoro. Anche se ho una sorta di reverenza nei confronti della parola lavoro.

Che valore gli dà?

Sono stato abituato a pensare che il lavoro sia qualcosa di spiacevole, qualcosa che devi fare per guadagnare dei soldi.

L’essere cantante non può considerarsi lavoro?

Quando uno dice faccio l’artista, specie all’inizio della carriera, di solito arriva la domanda, si ma cosa fai per mangiare?

A lei è mai capitato?

Mi è successo un sacco di volte, mi capitava anni addietro. Facevo tanti concerti con le varie band, e due soldini li tiravo su, per carità, servivano giusto a pagare un affitto e a mangiare qualcosa, fine. Però mi chiedevano sempre ‘ma riesci a vivere facendo il musicista?’. E io rispondevo: Sono vivo, quindi sì. E la loro risposta era spesso: allora perché non vai a Sanremo?

Il Festival come certificazione della sua professione?

Almeno in Italia, se tu non vai lì, se non fai quella cosa lì, non esisti! O meglio esisti, ma non vieni preso sul serio, ed è una cosa pazzesca questa cosa.

Lei poi a Sanremo c’è stato varie volte e lo ha pure vinto. È stato un traguardo o un altro punto di partenza?

Per me i punti di arrivo non ci sono mai. Ci sono solo punti di partenza. Già quando suonavo la chitarra nella mia prima band, gli Ameba 4 (con cui partecipò nella sezione giovani a Sanremo nel 2006, ndr), dove non cantavo, perché il cantante c’era già ed era anche molto bravo. Già lì pensavo che quel momento della mia vita era l’inizio di un qualcosa che mi avrebbe portato ad altro, ma non capivo dove. Sapevo però che c’era la creatività, lo scrivere, il cantare, il comporre.

Fondò il suo di gruppo: La fame di Camilla.

Ma anche lì fui io a mettere fine a quella storia e stetti molto male perché fu la classica cosa da commedia cinematografica: “Ti lascio, pur amandoti troppo.” Ho sofferto tanto, sono stato veramente di merda, però mi rendevo conto che volevo cambiare e la mutazione avviene quando si è soli, non avviene con gli altri. Cambi la tua pelle quando ti misuri con la forza e col peso specifico della tua solitudine, quando sei spalle al muro.

Ermal Meta nel 2015 all'esordio da solista

Ermal Meta nel 2015 all’esordio da solista

In una band non si può fare?

La band è una famiglia, non ti lascia mai e quindi non ti dà la possibilità di percepire come il mondo cambia intorno a te, soprattutto come cambi tu,  è difficilissimo capirlo con e in una band.

Perché questo desiderio repentino di cambiamento?

Sentivo di voler cambiare ma non sapevo come e per poterlo scoprire, ho lasciato la band. A quel punto ho capito che l’unica cosa che avrei potuto fare in quel momento era fare l’autore, quindi scrivere canzoni per altre voci. L’alternativa sarebbe stata finire l’università e andare poi a fare un lavoro qualsiasi.

Le piacerebbe che qualcuno trasformasse il suo libro in un film?

Mi piacerebbe molto, sto parlando con diverse persone, però a quanto pare la realizzazione sarebbe molto costosa, perché il libro è veramente ricco di avvenimenti e quasi tutti sono necessari l’uno all’altro, è una concatenazione di eventi che partono dal 1943 e finiscono nel ’90, attraversando diversi paesi.

Allora potrebbe diventare una serie?

Dovrebbe essere una serie e penso anche che sarebbe sicuramente molto emozionante, almeno per me. Avessi le capacità di poterla produrre, lo farei subito.

Facciamo finta che ha trovato i soldi per prodursela. Come sarebbe il cast?

Ci ho pensato diverse volte, mi piacerebbe coinvolgere attori di diverse nazioni, perché questa storia comincia in Albania, in Montenegro, poi si va in Germania, a Berlino e da lì in America.

Quindi meglio una coproduzione.

Mi piacerebbe avere attori albanesi, tedeschi, attori americani.

Nomi?

Eric Bana, il protagonista da grande me lo immagino con la sua faccia.

La regia?  

Roman Polański, perché avrebbe lo sguardo giusto su quel periodo storico dell’Europa, post Seconda Guerra Mondiale. Su tutte le assurdità dei regimi
totalitari, così somiglianti nei paesi del blocco orientale, del blocco sovietico.

E la nuova musica invece quando arriverà?

A breve uscirò con un nuovo singolo e poi vedrò se fare uscire anche un album.

Vale ancora la pena fare un album nell’era dello streaming?

Dipende da quello che vuoi raccontare. Se l’esigenza che hai di raccontare una cosa, nella sua interezza, è più forte dell’esigenza di fare streaming allora sì, vale la pena. Dipende da come vuoi comunicare con le persone, da cosa vuoi dire alla gente. Il disco è come una collana, i singoli sono le perle. Se tu vuoi donare qualcosa che ha un senso, che ha un inizio e una fine, allora è giusto pubblicare un disco. Dipende anche dalla musica che fai.

In che senso?

Chi fa musica di un certo tipo, i cantautori per esempio, hanno l’esigenza di pubblicare un album, perché comunicano attraverso quello e ti fanno entrare in una stanza, dove c’è una porta, poi entri, guardi questo nuovo ambiente, gli oggetti, il paesaggio. Chi invece è interessato alla logica dello streaming e alla musica fast food, io almeno la chiamo così e non è una critica, è giusto invece faccia dei singoli. Ognuno ha i suoi gusti e c’è qualcosa di bello in qualsiasi tipo di musica. Per me esistono solo due generi, la musica fatta bene e la musica fatta male.

Ermal Meta

Ermal Meta

C’è anche la moda del featuring oggi.

Io ho fatto diversi duetti e ho avuto la grande fortuna di farli con persone che stimo tanto e queste collaborazioni sono nate in maniera personale, non sono mai nate da altri tipi di interessi. Elisa, Fabrizio Moro, J-Ax, Giuliano Sangiorgi, sono stato sempre fan di ognuno di loro in realtà. Per Francesco Renga ho anche scritto in passato. Tutto è nato da una stima comunque personale, costantemente nutrita da un amore per l’arte di quel cantante in primis e poi la collaborazione.

Il duetto che ancora non ha fatto e che le piacerebbe fare?

Uno che per me è Gesù è Thom Yorke, che probabilmente è anche una delle ragioni per cui faccio musica. Quando ho ascoltato i Radiohead per la prima volta ho pensato: io voglio fare questa cosa qua.

Le piacerebbe fare una sua cover?

L’ho già fatta ma l’ho fatta solo live. Exit Music dei Radiohead, tra l’altro un arrangiamento molto bello di cui sono molto orgoglioso. Durante tutti i tour che ho fatto, ho inserito spesso canzoni che non sono mie, ma che reputo importanti per me e alle quali sono attaccate dei ricordi.

Perché non inciderla allora?

Ti rompono le palle con la richiesta di permessi, devi chiedere, ti devi rivolgere alle case discografiche. Una burocrazia infinita.

Le piacerebbe comporre musica per il cinema?

Mi piacerebbe molto fare delle canzoni per il cinema ma la musica di commento mi annoia mortalmente anche solo il pensiero di farla. Ho diversi amici che fanno questa cosa e quando mi raccontano il mio pensiero è “Ma come fate ad interfacciarvi con i montatori?” Mi piacerebbe parlare con il regista che mi dica “Fammi una canzone su questo tema”. Farei anche un disco intero, però l’importante è che siano canzoni.