The Last Worker, in un gioco in realtà virtuale l’inferno (reale) dei magazzinieri dell’e-commerce

Selezionato dalla Biennale di Venezia nel 2020, il videogioco di Wolf&Wood e Oiffy critica le condizioni dei lavoratori della logistica con più di un riferimento esplicito all'impero di Amazon e al suo fondatore Jeff Bezos. Su tutte le piattaforme e in VR

“Siamo tutti una grande famiglia”, recita la voce del Ceo di Jungle, l’azienda fittizia di spedizioni e logistica in cui lavora Kurt, il protagonista di The Last Worker. “Noi consegnamo sogni”, dice, mentre nello stabilimento labirintico tutto arrugginisce e schiere di droni afferrano pacchi da chilometrici scaffali per condurli allo smistamento. Se il prodotto è danneggiato: applicare il bollino e portare al riciclo. Se è invece è in ottime condizioni, si tratta di un “sogno” per qualcuno. E dunque va consegnato nel più breve tempo possibile. Kurt è l’ultimo umano a lavorare per Jungle: tutti gli altri sono robot.

The Last Worker è un videogioco del 2023 sviluppato dagli studi indipendenti Wolf&Wood e Oiffy, e pubblicato da Wired Productions, uno dei pochi games ad aver fatto capolino anche alla Mostra del cinema di Venezia, durante la sua 78esima edizione. E l’aspetto artistico di questo gioco è evidente non solo per lo stile fumettistico, ma anche – e soprattutto – per le sue tematiche di profonda attualità.

L’opera dei due studi è un’aspra ed esplicita critica del modello-Amazon e dell’automazione meccanica che porta a tagli e licenziamenti, una denuncia dell’alienazione che i lavoratori provano quotidianamente nei giganteschi magazzini dell’azienda. Uno stabilimento – quello di The Last Worker – “grandissimo”, come viene detto nei primi minuti di gioco. “Secondo in grandezza solo a Manhattan”. “Oh caro, Manhattan è finita sotto l’acqua anni fa”, ribatte Kurt. “Beh allora, è secondo a nessuno”.

L’ultimo lavoratore

Kurt smista i pacchi tutti giorni, e alla fine del turno il suo operato viene valutato dal pod, una sorta di velivolo che gli permette di volteggiare tra gli scaffali. Al suo fianco c’è Skew, un robot assistente – anche lui uno degli ultimi rimasti della sua “specie”, visto che non ci sono più esseri umani da assistere. Skew però è diverso da qualunque altro robot dello stabilimento: parla e pensa. La sua intelligenza artificiale gli permette di avere un carattere, oltre a un forte accento britannico. La dinamica della loro amicizia riesce a rompere la monotonia del turno di lavoro, fino a quando un altro robot (telecomandato da un essere umano) non entra nel grande stabilimento della Jungle.

È una rivoluzionaria del gruppo Spear, un collettivo di attivisti che sta cercando di smascherare la Jungle e di salvare il genere umano. Kurt, inizialmente restio e vittima dell’individualismo, non ascolta le richieste dei rivoltosi, ma alla fine si renderà conto di come il sistema aziendale in cui lavora sia disumano e ipocrita. Lui è l’ultimo lavoratore, lei l’ultima attivista. Se vogliono distruggere la Jungle, devono collaborare.

Il gigantesco magazzino di The Last Worker, "secondo a nessuno".

Il gigantesco magazzino di The Last Worker, “secondo a nessuno”. (Courtesy of Wired Productions)

End stage capitalism

Il viaggio verso la liberazione raccontato dai due team di sviluppo in The Last Worker fa riferimento alle notizie, circolate negli ultimi anni, sulle condizioni di lavoro dei dipendenti della big tech statunitense. Corrieri costretti a urinare nelle bottigliette dell’acqua nelle brevissime pause tra una consegna e l’altra; la retorica aziendale che vuole l’operaio “felice” di lavorare in Amazon (lo slogan: Work hard. Have fun. Make history). E poi i continui controlli ai dipendenti all’ingresso e all’uscita degli stabilimenti, la fatica dei turni di lavoro notturni, il tempo necessario per preparare i pacchi.

Sembra distopia, ma è la realtà di molti lavoratori della corporation di Jeff Bezos, tra gli uomini più ricchi del pianeta. Uno spaccato raccontato precisamente dal giovane giornalista francese Jean-Baptiste Malet nel suo libro En Amazonie: un infiltrato nel “migliore dei mondi”, in cui descrive la sua esperienza di lavoro nello stabilimento di Montélimar, nel sud della Francia.

“In Amazon è diffusa l’ipocrisia, nonostante i valori che vengono sbandierati ogni sera nei discorsi dei manager, prima di prendere posto”, scrive Malet nel libro inchiesta, riferendosi ai controlli esercitati sui lavoratori dalla sorveglianza.

“Qual è la frequenza dei controlli, quali i parametri allo screening e a quali categorie di lavoratori sono rivolti? Impossibile saperlo”, continua. “Sembra tuttavia che le attenzioni si concentrino soprattutto sui dipendenti delle posizioni gerarchiche inferiori, i lavoratori interinali – scrive il giornalista di Le Monde Diplomatique – e questo atteggiamento, di cui il personale è consapevole, è vissuto come un trattamento illegale, una discriminazione sociale”.

Essere un picker nel “migliore dei mondi”

All’interno dei mastodontici stabilimenti di Amazon esistono due mansioni principali, quella dei picker e dei packer. Gli ultimi sono coloro che si occupano dell’imballaggio, che si assicurano che i pacchi siano “perfetti”. I picker, invece, sono coloro che corrono avanti e indietro per il magazzino a prendere i prodotti dagli scaffali con giganteschi carrelli, e che macinano chilometri di strada tutti i giorni.

Picker, avete un carrello, un contenitore e il vostro scanner, avete la lista degli articoli ordinati dai clienti, la lista degli articoli dei prodotti che dovete cercare sugli scaffali”, spiega la responsabile delle risorse umane a Malet, prima di entrare in azienda. E continua: “Per otto ore di lavoro percorrerete, ogni volta, più di venti chilometri a piedi. Rifletteteci bene. Venti chilometri a piedi, come andare da Montélimar a Pierrelatte”. E nel videogioco The Last Worker, scanner alla mano, siamo dei picker in tutto e per tutto. Ma in un futuro prossimo, cupo, maledettamente vicino.

Essere un picker in The Last Worker

Essere un picker in The Last Worker. (Courtesy of Wired Productions)

I tool di Jungle, contro Jungle

Lo scanner di Kurt gli permette di prendere i pacchi, anche i più pesanti, e di posizionarli sul suo pod. E poi di etichettarli in base al loro stato, capire se siano danneggiati, o se abbiano un peso cimprevisto. Ma attraverso lo “scanner”, il team di sviluppo ha costruito un gameplay semplice e variegato, che alterna fasi più “clericali” di raccolta e smistamento, a sezioni cosiddette stealth (di sotterfugio), in cui il nostro Kurt deve eludere i robot della sorveglianza. Uno scanner che diventa de facto il multitool attorno a cui si sviluppa l’esperienza di gioco.

Così gli “strumenti” dell’azienda diventano gli strumenti per la liberazione dell’ultimo lavoratore, in un’avventura disponibile per tutte le piattaforme, ma indicata – e pensata – principalmente per un visore per la realtà virtuale, che promette un coinvolgimento ancora più inquietante e pervasivo nel cupo magazzino della Jungle.

Alla fine dell’esperienza di gioco – accuratamente progettata con un veste grafica cartoonesca e una palette di colori caldi, dal marrone all’arancione – l’utente si sente parte di una causa. Avverte fisicamente l’esigenza dell’evasione dalla monotonia logorante del lavoro di picker, oltre che da quella di smistamento. L’obiettivo è centrato: il giocatore è parte di una famiglia, quella che Kurt si è scelto. Una famiglia fatta di persone con ideali, e di robot come Skew. “Oh Bollocks”, direbbe lui, con quel suo inconfondibile accento.

Per questo articolo è stata provata la versione PC di The Last Worker. En Amazonie: un infiltrato nel “migliore dei mondi” è un libro inchiesta di Jean-Baptiste Malet edito in Italia da Kogoi.