Ci sono tanti modi per diventare una leggenda. Impersonando personaggi fuori dal comune, fingendo (forse?) la propria morte, sfidando tutte le donne del mondo a combattere su di un ring o trovando una frase da rendere iconica. Era con “thank you very much” che Andy Kaufman chiudeva i suoi primi numeri, vocetta stridula e occhi spiritati. Ed è la stessa con cui il regista Alex Braverman e il produttore esecutivo Josh Sadfie hanno intitolato il documentario dedicato al comico statunitense, presentato nella sezione di Venezia Classici all’80esima edizione della Mostra cinematografica.
Stesso banco di prova in cui nel 2017 venne mostrata in anteprima un’altra opera su Kaufman, quel Jim & Andy di Netflix incentrato sulla carriera (e vita) di Jim Carrey vista attraverso il filtro di Andy, che l’attore interpretò nel biopic Man on the Moon del 1999 di Miloš Forman. Stavolta, Thank You Very Much, trae totalmente a piene mani dalla carriera e dal personale di Andy Kaufman usufruendo di materiale d’archivio e testimonianze, scoprendo gemme rare come la “voce” dietro al performer e la libertà sperimentata con personaggi folli come Tony Clifton.
Andy Kaufman e Venezia hanno un rapporto speciale. Nel 2017 venne presentato il documentario Jim & Andy, ora è il turno di Thank You Very Much. Quale è la differenza le due opere?
Alex Braverman: Jim e Andy è un documentario straordinario. È un film su cos’è la performance. Ma lo considero più un ritratto su Jim Carrey e il suo viaggio nel capire chi è più che su Andy Kaufman. Con Thank You So Much, invece, ho avuto l’opportunità di scoprire chi fosse Kaufman come persona. O almeno, è quello che ho cercato di fare.
Josh Safdie: Sono d’accordo, Jim e Andy è un documentario su Jim Carrey che usa come lente Andy Kaufman. E se per i fan di Kaufam è divertente, per quelli di Carrey è semplicemente fantastico.
Thank You So Much va molto a ritroso nella vita di Andy. Cosa vuol dire aver avuto la possibilità di entrare così in profondità nell’esistenza di Kaufman?
A.B.: Quando ho sentito per la prima volta la storia sulla morte del padre di Andy e quanto fosse forte il loro rapporto, ho capito che questa poteva essere la chiave da cui poter partire per un film. Ti fa comprendere come il modo di relazionarsi di una persona nei confronti della realtà può cambiare drasticamente, generando un personale universo creativo. Quando Andy mise insieme i pezzi di ciò che accadde a suo padre, dopo che gli avevano mentito, non riuscì più a guardare il mondo nella stessa maniera. Pensa essere un ragazzino a cui raccontano una storia, per rendersi poi conto che era tutta una farsa. Definisce la tua esperienza come persona. E per Andy è stato il carburante creativo e produttivo.
Anche Kaufman aveva diversi segreti che sembra essersi portato nella tomba. Voi davvero non conoscevate la verità su come ha trovato la voce acuta che ha contribuito a renderlo famoso?
A.B.: No, davvero. Abbiamo cominciato a girare il documentario nel 2022. Dopo aver lanciato il comunicato stampa, mi chiama un giornalista del Guardian dicendomi che c’è un tipo che afferma di essere un ex compagno di stanza del college di Andy. Mi chiede se voglio parlarci, ovviamente rispondo di sì. Quando lo chiamo la prima volta credo mi stia prendendo in giro. Sembrava qualcuno che fingeva di parlare come Larka Gravas, il personaggio di Kaufman nella sitcom Taxi. Poi mi dice il suo nome: Bijan Kimiatchi. Mi illumino.
La volta che Andy partecipò ad un dating game disse al pubblico e al conduttore di chiamarsi Baji Kimi. La voce che Kaufman utilizzò era identica a quella dell’uomo con cui ero al telefono. Ho pensato: “Non mi interessa se questa storia è vera o no, dobbiamo addentrarci nella tana del bianconiglio e vedere cosa ne viene fuori”. Così sono andato a Londra e ho incontrato Bijan. Mi ha raccontato che il compagno di stanza del college di Andy era molto rumoroso, faceva feste in continuazione, tanto che Kaufman non riusciva a darsi pace.
Un giorno chiese di fare a cambio col ragazzo della camera accanto. Si trasferì così con Bijan. Mi ha raccontato che sia lui che Kaufman erano tipi abbastanza solitari. Si capivano, si sentivano entrambi degli outsider e un giorno, mentre Andy faceva pratica, Bijan gli disse: imitami. C’è chi ad oggi, delle persone che hanno conosciuto il comico, ancora non credono a quella che ritengono “una vera stronzata”.
Non solo la voce, Kaufman diventò noto per la sua comicità sovversiva. Ad oggi pensate ci sia qualche suo erede? Potrebbe ancora esistere un’ironia caustica e anti-convenzionale come la sua?
J.S.: Al momento non credo ci sia un comico in circolazione come Andy Kaufman, e nemmeno che possa avere un successore. È una questione di stile. A Kaufman bastava la sola presenza. Sarebbe stato bello poter fare questa domanda a Andy: potrebbe esserci, oggi, un comico come te? Forse sì, ma solamente se fosse in grado di replicare l’infinita sequela di personaggi creati da Kaufman. E che, tutti loro, riuscissero poi a rendere autentica e sfumata l’incredibile demarcazione che il comico sapeva trasmette del confine labile tra finzione e realtà.
Confine che ha alimentato dentro e fuori dal palco.
J.S.: Penso che ad aiutarlo sia stato il suo avvicinamento alla meditazione trascendentale, soprattutto nel momento in cui è diventata una passione sempre più grande dentro di lui. È come se avesse acquisito una consapevolezza maggiore. Sarebbe stato un attimo attore feticcio per David Lynch e sarebbe stato interessante per il comico poter far parte dell’universo artistico del cineasta. Condividono lo stesso modo di creare e fruire le idee, e di come si sta nello spazio.
La comicità è più potente se contiene dentro sé un pizzico di tragedia?
A.B.: In un certo senso la vita di Andy Kaufman è stata una tragedia. La conversazione su ciò che è o non è commedia in questo momento è più onesta rispetto a dire se una cosa è divertente o meno. Andy diceva sempre alla sua fidanzata Lynn che il suo sogno era quello di essere seguito dalle telecamere 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Poi ci sono reality show come quello sulla famiglia Osborne o sui Kardashian e ti domandi perché la gente si fa seguire costantemente da un obiettivo. Cosa fa esattamente per le telecamere? La vita prende una piega differente a seconda del pulsante rec? Ad Andy sarebbe piaciuto molto osservarli. E, perché no, far parte di un programma simile.
J.S.: Andy Kaufman è sempre stato onesto riguardo alle tragedie che hanno toccato la sua vita. E trattando quei traumi con sincerità, riusciva a renderli motore per la sua comicità. È morto molto giovane. O, almeno, presumibilmente è morto molto giovane. Ma il fatto che non ci sia più, che sia scomparso a quell’età, rende il suo mito ancora più misterioso. E, col mito, anche la sua stessa vita. La domanda è rimasta anni dopo: era reale? Non era reale? E la sua esistenza lo è stata?
La sua morte è coincisa con l’età migliore per alimentare la leggenda. È a trent’anni che si comincia a capire che ci si sta allontanando dalla propria giovinezza. Che sia morto, che si sia ucciso o che abbia permesso al cancro di ucciderlo, quello era il momento perfetto. Anche se ho sempre creduto che, se fosse riemerso, lo avrebbe fatto in versione Tony Clifton. Clifton è sempre stato vecchio. Non era giovane. Non era un ragazzo di trent’anni. Era un uomo di mezza età che viveva in un motel di merda a Reno, Nevada.
Con Thank You Very Much scopriamo che a Andy non dispiaceva essere disprezzato o respinto proprio a causa di personaggi come Tony Clifton, o ai suoi ring westler contro le donne. Anzi, non si era mai sentito più libero. È una sensazione invidiabile, non trovate?
A.B.: Trovo sia uno degli aspetti più importanti dell’intero documentario. Guardando all’archivistica su Andy e Tony ci si chiede se il comico fosse costantemente nel personaggio. Se davvero non ne uscisse mai. Per me non è così. Anche perché credo si sentisse sempre libero di poter essere qualsiasi personaggio volesse. E, ognuno di loro, era l’espressione stessa di Andy. Erano tante diverse versioni di sé. Personalmente non ho mai sperimentato una tale libertà, ma sì, mi piacerebbe eccome.
J.S.: Spesso mi immergo nelle culture e nei giri dei film che sto per realizzare. Lo faccio per una questione di ricerca. In quel caso è come se creassi un personaggio, anche se rimango sempre io. Cerco nuovi modi di relazionarmi con le persone. Ad esempio, quando ho girato Uncut Gems, ho lavorato nell’industria dei diamanti vendendo orologi falsi. Quando facevo Heaven Knows What non ero un eroinomane che viveva per strada, ma ci ho passato parecchio tempo, nel parco, per mesi, mesi e mesi. È così che si inizia a capire. Si creano certi personaggi, certi mondi.
Questo lo trovo liberatorio, ma può essere anche spaventoso, poiché entri in uno spazio che non sai dove ti porterà, ma lo faccio in nome della verità, perché la vita è performance. Sei una persona diversa con chiunque. Ho degli amici che sono dei pazzi e so che, quando uscirò con loro, succederanno cose folli. E così è. Avevo un amico che si arrampicava per fare graffiti sui cartelloni pubblicitari nel cuore della notte, purtroppo è morto recentemente, ma sapevo che quando ero con lui sarebbero successe cose impossibili ed era anche questo che mi attraeva.
È perciò pericoloso crearsi un proprio mondo?
J.S.: Posso dire di aver imparato che bisogna fare attenzione quando si creano dei personaggi. È come il metodo dell’Actor’s Studio, solo che gli attori lo usano nella recitazione, per opere di finzione, Andy invece lo applicava nella vita.
Ho passato molto tempo tra cimeli e firme di altri. Qui ho la firma di Andy Kaufman (mostra il suo cappellino nero da baseball, ndr.). Trovo interessante il concetto di firma perché anche quella è una rappresentazione del sé. Lo pensiamo tutti quando ci sediamo per trovare la nostra la prima volta. Ti chiedi quale aspetto deve e potrà avere. Cosa dovrà dire di te. Continuo a pormi la domanda ancora oggi quando mi chiedono un autografo. Al che rispondo sempre: cosa mi dai in cambio? Perché firmando è come se stessi donando una parte di me.
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