Autori che non tradiscono: Wes Anderson. Lo sappiamo, il suo universo è così nitido e codificato da risultare anche facilmente imitabile e sul web dilagano i corti e gli omaggi girati con i suoi colori, le sue inquadrature, il suo modo di usare gli sguardi o i movimenti dei personaggi. Però il regista dei Tenenbaum sa anche estrarre ogni volta (o quasi: The French Dispatch è il classico incidente di percorso) qualcosa di nuovo dal suo cinema. Come prova The Wonderful Story of Henry Sugar, Fuori Concorso a Venezia, 40 minuti ispirati a un racconto di Roald Dahl che iniziano come un finto documentario sul grande scrittore, con Ralph Fiennes che parla allo spettatore in poltrona e ciabatte, per trasformarsi quasi subito in una strana macchina narrativa a scatole cinesi.
Orizzonti che si moltiplicano
Mentre Dahl/Fiennes scrive, infatti, lo spazio inizia a scomporsi in una serie di pannelli mobili che scorrono verso l’alto o di lato, come in certi spettacoli teatrali, appaiono altri personaggi (lo stesso Henry Sugar, cioè Benedict Cumberbatch) nonché altri libri, quaderni, biblioteche. Così dentro quella storia se ne apre un’altra, e dentro la seconda storia se ne apre un’altra ancora mentre gli orizzonti si moltiplicano e non siamo più in Inghilterra, siamo in India, dove un truccatissimo Ben Kingsley suscita lo stupore e l’interesse dei medici (in testa Dev Patel) con la sua abilità incredibile. Sa leggere un libro (ancora libri) con gli occhi chiusi, anzi bendati, anzi serrati dentro un assurdo casco con un buco per il naso. E sa anche muoversi, camminare, girare in bicicletta per la città.
Ma questo è solo il filo del racconto, ciò che possiamo riassumere anche a parole, l’essenziale è altrove, è nel modo in cui Anderson usa i personaggi e visualizza luoghi ed eventi. Gli attori infatti non solo recitano i dialoghi dello scrittore ma si voltano verso di noi dando corpo alle reazioni e alle emozioni descritte da Roald Dahl.
Un po’ come nel Diario di un baro di Sacha Guitry (1936), se non l’unico il primo film interamente affidato a una voce narrante, ma in modo molto più ironico e ostentato, in perfetto accordo con quel gusto da illustratore e quella commistione di generi, tecniche, formati, tipica dell’autore di Fantastic Mr. Fox, che come si ricorderà era tutto girato in stop motion. Per cui sullo sfondo passa un trenino e non capiamo se è disegnato o se è un modellino in 3D, la capanna del guru che sembrava un fondale si rivela autentica e dotata di un interno, azioni che sarebbero troppo violente vengono solo dette o appena mimate sullo schermo.
Henry Sugar, tutto si piega al racconto
Insomma Anderson non si fa mancare niente, sono solo 40 minuti ma non c’è tecnica, recitativa, espressiva, figurativa, che non pieghi al “suo” racconto. E forse era proprio questo che interessava davvero al regista texano anche se il piacere è il piacere, un racconto è un racconto, e il piacere del racconto impone che ci si fermi qui. Come e perché questo dono arrivi nelle mani del ricco Henry Sugar/Benedict Cumberbatch conviene scoprirlo su Netflix, o magari al cinema se come speriamo questo film così traboccante di dettagli arriverà su grande schermo.
Ma intanto Wes Anderson, come i fratelli Coen anni fa con il loro bellissimo western a episodi, La ballata di Buster Scruggs, ha indicato la direzione. Smettiamo per favore di mettere in cantiere solo serie infinite e film sempre più assurdamente lunghi (come si vede quest’anno a Venezia). La “forma breve”, come si chiamava una volta, è una miniera senza fondo. Che qualcuno ne approfitti.
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