Takehiko Inoue è un perfezionista. The First Slam Dunk ne è la plastica dimostrazione.
O meglio: più che la perfezione, nei suoi disegni cerca il realismo della vita e delle cose, di quello che vede e che tocca. E quindi passa molto, moltissimo tempo studiando e osservando. Va in giro per le città, scatta foto, scruta. Rimane in silenzio. La sua mente funziona come una fotocopiatrice ad alta definizione: cattura, immagazzina, stampa. Nel suo studio regna un caos ordinato, funzionale, in cui tutto – i pennini, la carta, i riferimenti – è al suo posto.
Quando ha creato Slam Dunk (Planet Manga), ha voluto provare a raccontare una storia di amicizia e crescita. Una storia di vita. Dividendosi tra fallimenti, dolore e sofferenza. Inoue ha usato lo sport come mezzo, come ponte, e l’ha fatto nonostante tutto. Il basket, quando in Giappone è arrivato Slam Dunk, non era così popolare: lo è diventato dopo. Eppure si prestava benissimo, per le sue regole e per la sua struttura, alla sua storia.
The First Slam Dunk, al cinema il 10 maggio in lingua originale, doppiato dall’11 al 17, distribuito da Anime Factory, è – se possibile – ancora un’altra cosa. Inoue, che qui dirige e scrive, ha voluto aspettare. Ha detto di no alle proposte – continue e insistenti – dei produttori che gli chiedevano di girare un sequel del suo manga, ed è riuscito a imporsi. Ha fatto un film, che è la sua opera prima, in cui ha cambiato completamente la prospettiva del racconto. E l’ha fatto meravigliosamente.
The First Slam Dunk, il protagonista
Si è concentrato sul personaggio di Ryota Miyagi, il playmaker della squadra, il giocatore che ha il ruolo di impostare la strategia e di portare avanti l’azione. Il regista. In questo modo, non solo ha potuto ripercorrere una delle partite più famose del manga, ma ha anche potuto dare spazio a un personaggio che, in passato, non ne aveva ricevuto abbastanza.
Ryota è lo spettatore. Ryota vive sulla propria pelle lo stesso stupore che vive il pubblico. Ryota è un Virgilio da seguire in una partita di cui conosciamo già il risultato. Ma Ryota è anche Ryota, sé stesso, e quindi quella che vediamo, parallelamente al corso dell’incontro, è la sua infanzia, il suo passato, ciò che ha subito, provato e perso.
The First Slam Dunk, proprio come il manga, usa il basket – e usa la visibilità di un racconto così popolare, capace di vendere più di 170 milioni di copie – per parlare di altro. Ryota ha perso prima suo padre, poi suo fratello. Il rapporto con sua madre è teso, e l’unica che sembra capace di mantenere un equilibrio in casa è sua sorella minore. Il basket, come dirà, è la sua unica ragione di vita: quello che gli ha permesso di resistere e di andare avanti, di non mollare. Il racconto di The First Slam Dunk funziona come le scatole cinesi: ne apri una e ne trovi un’altra; apri anche quella, e ne trovi un’altra ancora. C’è un andamento preciso alla narrazione, ed è un andamento che sa – sa, vogliamo ribadirlo – prendersi i suoi tempi.
Inoue accelera quando deve – e vuole – accelerare, e rallenta quando ha bisogno di spostare l’attenzione dello spettatore su diversi dettagli. Le mani, le figure, il sudore che bagna i corpi, i muscoli in tensione, gli occhi – quant’è importante, per Inoue, lo sguardo dei suoi personaggi. La tecnica di animazione che è stata scelta, un misto di CGI e di 2D, gli ha permesso di trovare un modo sia per esprimere la sua ossessione – termine duro, lo sappiamo, ma calzante – per il buon tratto sia per dare dinamismo alle varie sequenze.
In primo piano, bellissima ed emozionante, c’è la partita dello Shōhoku, la squadra di Ryota, contro il Sannoh. E poi, sullo sfondo, ma nemmeno così in lontananza, c’è la vita di Ryota. Inoue ha capito, e di questo bisogna dargli atto, come costruire un film diverso, alternativo, senza dover sfruttare a tutti i costi il “brand” Slam Dunk, ma provando a regalare a chiunque, anche allo spettatore che non ha mai letto il suo manga, un’esperienza.
Serve prepararsi alla visione di The First Slam Dunk. Perché non è, banalmente, l’adattamento di una serie di fumetti. E non è nemmeno il ritorno di un gruppo di personaggi. È come un bivio su una strada più grande. Non ci sono né la comicità né le gag del manga, in questo film. Sakuragi, che per la storia originale era perfetto come punto di vista per il lettore, qui rimane quasi in disparte: una figura vitale, presente, ma non così centrale. È Ryota il fulcro del racconto. The First Slam Dunk si presta alla visione di diversi pubblici: i fan del manga, i fan del basket; e gli appassionati del buon cinema. È fondamentale, in questo caso, provare ad andare oltre le etichette e non fermarsi alla gabbia di una distribuzione-evento, al fenomeno manga.
The First Slam Dunk ha una sua dignità e una sua forza; è indubbiamente uno dei migliori film di animazione degli ultimi anni. Ed è anche, se vogliamo, una lezione. Per noi, spettatori, e per chi fa questo mestiere.
The First Slam Dunk, l’esordio al cinema di Takehiko Inoue
La storia di Inoue, le sue decisioni, sono un esempio per capire il modo giusto in cui approcciare un racconto. Questa è – e sembra incredibile scriverlo, nero su bianco – un’opera prima. E ha comunque la forza dell’esperienza e della consapevolezza.
Rappresenta una terza via per il cinema. Perché risponde a due necessità precise: quella di attirare il grande pubblico, e quindi di riuscire a incassare (in Cina, nel primo weekend, The First Slam Dunk ha guadagnato più di 50 milioni di dollari), e quella di non cedere sulla qualità.
Questo è, prima di tutto, un film bellissimo. Avvolgente. Proprio come un abbraccio. È una gioia per gli occhi, per la sintesi che raggiunge e che tiene insieme 2D e CGI, ma anche per il cuore.
The First Slam Dunk è un film che emoziona, che affronta la violenza della vita, il lutto, la morte e la famiglia. È per chiunque, indistintamente – vogliamo ripeterlo. La storia, in teoria, dura solo pochi giorni. Ma come dice la mamma di Ryota quando lo rivede, sembra passato molto più tempo. Sei cambiato, gli fa notare. Sei cresciuto. È quello che può fare una partita di basket. O, se preferite, che può fare la vita. Che in alcuni momenti va velocissima, e in altri si dilata come ferro al sole. Restano i ricordi e le cicatrici.
Nei trenta secondi di una pausa sul campo c’è ogni cosa. Si respira, si stringono i denti; si trova un altro approccio al gioco. È tutto diverso e, allo stesso tempo, è tutto uguale.
La vita è una sfida, proprio com’è una sfida una partita di basket.
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