“È la prima volta che vedo la Z sui carri armati, simbolo della guerra per la Russia”, è così che inizia il racconto di Mstyslav Chernov nel suo 20 Days in Mariupol. Comincia dalla fine, da uno dei momenti più concitati, pericolosi e drammatici, per poi proseguire a ritroso, spiegando di cosa si è appena stati testimoni.
La voce narrante, già in modo implicito, tranquillizza. Fa capire che tutto ciò a cui si assiste per i successivi 94 minuti almeno lui, Chernov, è riuscito ad attraversarlo incolume, o quasi. Lo racconta infatti in un tempo successivo, commentando le immagini e ricordando le emozioni provate sul momento. Lo fa quindi con una cronaca che somiglia quasi a un diario, giorno per giorno, con la consapevolezza di quanto ogni momento sia prezioso.
20 Days in Mariupol, dal Pulitzer agli Oscar
Le immagini che seguono sono familiari, fin troppo. Ci si accorge presto che sono le stesse già viste in tutti i notiziari il 24 febbraio 2022 e nei giorni seguenti: i bambini e le donne che si rifugiano nelle cantine, i raid aerei, il bombardamento dell’ospedale pediatrico e la donna incinta trascinata via. Chernov e la sua troupe di giornalisti e fotografi ucraini per Associated Press (AP) sono rimasti ben presto, dopo soli sette giorni, gli unici giornalisti con contatti internazionali a Mariupol.
Gli unici in grado di raccontare all’esterno cosa stava succedendo, soprattutto dopo che la propaganda di disinformazione russa ha cercato di mistificare gli attacchi ai civili. Con enorme sforzo e coraggio, Chernov e i suoi sono riusciti a inviare quasi regolarmente ad AP (e quindi alle testate internazionali) gli stessi video che poi sono stati raccolti e rimessi insieme nel racconto diventato poi 20 Days in Mariupol. E per questo stesso materiale Mstyslav Chernov, Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnan hanno vinto il premio Pulitzer 2023 per il miglior giornalismo di pubblico servizio. Con il supporto di Frontline, la serie di reportage documentaristici dell’emittente Pbs, diventa appunto un film, presentato al Sundance 2023 e nominato agli Oscar 2024 come miglior documentario.
Mariupol e “l’operazione militare speciale”
“Giorno 1, le guerre non iniziano con le esplosioni, iniziano con il silenzio”. Il racconto di Chernov inizia proprio dal silenzio della mattina del 24 febbraio 2022. La calma apparente dopo l’annuncio di Putin della cosiddetta “operazione militare speciale” – che di fatto è stata un’invasione – è interrotta dopo alcune ore dalle prime bombe. Tra incertezza e incredulità, la squadra di Chernov si dirige verso la “sponda sinistra” della città, più esposta all’attacco russo.
Qui raccoglie le primissime reazioni dei civili, indecisi se scappare o meno, persino quando i colpi raggiungono le loro case. L’idea della guerra è così assurda da non sembrare possibile ai loro occhi. Eppure in quella stessa area, nel poco distante Donbass, è in corso da oltre otto anni. Si è solo spostata su altri fronti.
Lo sa bene Chernov stesso, che proviene da un altro territorio attaccato nei primi giorni di guerra, Kharkiv. E infatti, pur in un eccellente e lucido lavoro di reportage, in cui spesso dà priorità al girato che alla sua stessa incolumità, il regista non riesce e non vuole nascondere quanto tutto ciò che riprende lo tocchi da vicino.
Faccia a faccia con la morte
Giorno 4, per la prima volta la troupe registra il suono di un caccia militare in volo sopra la città. I giornalisti stranieri sono già quasi tutti lontani da Mariupol. Chernov e i suoi scelgono di restare e di documentare da vicino l’operato dei medici negli ospedali. Nessuno prova ad abbassare le telecamere, nessuno vuole che venga nascosto l’orrore creato dall’assedio. Un medico guida la telecamera di Chernov, gli mostra corpi senza vita che iniziano ad ammassarsi nelle corsie. Arriva un’urgenza: Evangelina, 4 anni. Provano a rianimarla, ma non c’è più niente da fare.
Il medico le passa una mano sul viso, come una carezza, per chiuderle gli occhi. E la telecamera si sposta leggermente, lasciando fuori dall’inquadratura il volto della piccola. Per pietà, per dolore, per umana decenza. Ed è solo uno dei tanti momenti in cui la soggettività di Chernov emerge e attraversa ciò che mostra, ricordando al pubblico che tutte le immagini che compongono 20 Days in Mariupol sono filtrate dalla sua sensibilità. Di uomo, di cittadino ucraino e di padre di due bambine, a cui pensa costantemente.
“Nota ai redattori: contenuto esplicito. È doloroso da guardare, ma deve essere guardato”, dice così la sua voce fuori campo in quella che con ogni probabilità è la vera nota inviata all’Associated Press insieme al materiale video dell’ospedale. Ed è un concetto che ricorre spesso nel corso del documentario, una frase che Chernov ripete a se stesso in diversi modi: “Il mio cervello cercherà disperatamente di dimenticare tutto questo, ma la videocamera non glielo permetterà”.
La videocamera saprà riconoscere senza esitazione, per esempio, il colore del lenzuolo in cui è avvolto Ilya, 16 anni, morto sotto gli occhi del regista pochi giorni prima, nello stesso ospedale di Evangelina, e insieme a lei e a decine di altri corpi gettato nella fossa comune, in una città che non può ancora piangere i morti, perché deve prima proteggere i sopravvissuti.
Il fronte si avvicina
Giorno 15. Il suono delle mitragliatrici si aggiunge a quello degli aerei e delle bombe e può voler dire una sola cosa: i russi sono entrati a Mariupol. La città è stanca, isolata, senza elettricità né connessione a internet, ma resiste. È proprio per questo che Putin l’attacca su un altro fronte, quello della disinformazione, provando a manipolare persino le immagini di Chernov provenienti dal terribile attacco all’ospedale pediatrico.
Qui 20 Days in Mariupol dimostra ancor di più il suo enorme valore giornalistico, nella lotta alle fake news russe, essendo filmato direttamente sul fronte più duro dell’assedio. La troupe del film è per strada durante i raid aerei, è dentro l’ospedale pediatrico, (l’ospedale d’emergenza numero 3), quando le donne e i bambini vengono trascinati via sanguinanti, morti e feriti ed è di fronte ai carri armati quando questi circondano l’ospedale di emergenza numero 2, l’ultimo rimasto in piedi. Le riprese non si fermano nemmeno durante la fuga di Chernov e i suoi, messi in salvo da una task force militare speciale solo poche ore prima che anche l’ultimo ospedale venga occupato e attaccato dai russi.
20 giorni soltanto, per raccontare Mariupol
Si concludono così i 20 giorni della troupe a Mariupol, con una fuga verso il convoglio della Croce Rossa, oltre il confine della città e la linea del fuoco. Con il cuore pesante, per chi resta indietro e l’imperativo morale, e non solo, di riuscire a raccontare, da vivi, tutto ciò di cui si è stati testimoni. Venti giorni sono pochi rispetto agli 86 trascorsi prima della caduta di Mariupol in mano ai russi. Sono pochi rispetto alle 25.000 vittime accertate e alle altre decine di migliaia, non ufficiali, le cui storie resteranno sconosciute. Sono tanti e anche troppi però, venti giorni, da sopportare per chi li ha vissuti, per chi ha sentito sulla propria pelle l’onda d’urto delle bombe e ha sentito su di sé il peso di dover mostrare quell’orrore al mondo.
Inizia tutto dal silenzio, dalla normalità di una mattina qualsiasi di fine febbraio, e diventa un inferno in cui il tempo si ferma e gli occhi e le orecchie cercano di dimenticare. Ma la telecamera accesa non lo permetterà.
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