“La nostra non è una campagna per gli Oscar, ma una campagna per la liberazione dell’Uganda”. Sono le parole di Bobi Wine quelle riprese da Christopher Sharp, co-regista insieme a Moses Bwayo del documentario Bobi Wine: The People’s President.
Bobi Wine, pseudonimo di Robert Kyagulanyi Ssentamu, è una superstar ugandese, musicista reggae e afrobeat che circa dieci anni fa ha deciso di entrare in politica, nel partito di opposizione all’attuale presidente Yoweri Museveni. È diventato un deputato parlamentare nel 2017 e il candidato sfidante alle elezioni presidenziali nel 2021.
In questo decennio è diventato il simbolo della fascia più giovane del paese che chiede la destituzione di Museveni, ormai in carica dal 1986, in quella che di fatto è diventata una dittatura appoggiata dalle forze dell’esercito.
L’incontro con Christopher Sharp
Sharp, venerdì 23 febbraio, si trova a Roma per presentare il documentario, candidato agli Academy Awards 2024, ma soprattutto per trasmettere un messaggio che va oltre il cinema e spera di raggiungere direttamente la politica oltre che l’opinione pubblica. “La nomination è stata una sorpresa ma non era l’obiettivo” afferma. “Volevamo semplicemente mostrare questo film a più persone possibili (presentato a Venezia nel 2022, adesso è in streaming su Disney+, ndr), far sì che diventasse una piattaforma per le voci del popolo che lotta”. E infatti prosegue: “Non mostriamo né l’inizio né la fine di questa storia, che è ancora in corso, ma speriamo che possa diventare uno strumento contro la dittatura. Per far sì che, adesso che l’Occidente guarda, non si ripetano più gli arresti e gli omicidi avvenuti per strada durante le scorse elezioni. Con il prossimo voto tra meno di due anni, questo film potrebbe attivamente cambiare la storia dell’Uganda”.
La sfida del documentario: l’imprevedibilità
Non è semplice camminare a Kampala, la capitale dell’Uganda, con una telecamera accesa senza attirare l’attenzione della polizia. “Per fortuna le autorità non si sono mai rese veramente conto di ciò che stavamo facendo, confondendoci con altri giornalisti e reporter”, spiega Sharp. “Anche se adesso ci è vietato l’ingresso nel paese e il mio co-regista si trova negli Stati Uniti come rifugiato politico”.
Ecco perché l’enorme mole di lavoro da lui diretta insieme a Bwayo è già in sé straordinaria. Bobi Wine: The People’s President è un film impossibile: da organizzare, da scrivere e da tradurre in realtà. “Le riprese sono durate sei anni, con tre operatori e uno di questi era Moses, il mio co-regista che si è anche ritrovato nelle situazioni più pericolose”, prosegue. “Abbiamo anche raccolto materiale giornalistico d’archivio, arrivando a un totale di 4 mila ore di girato”.
E non è stata questa la sfida maggiore: “Come ogni documentario, sai da dove inizi ma non sai dove andrai a finire né se ci sarà abbastanza da dire. Noi per esempio eravamo costantemente preoccupati che Bobi venisse ucciso o imprigionato a lungo. Ma non si può fare altro che andare avanti. Così alla fine abbiamo deciso che le elezioni del 2021 sarebbero state un buon punto di chiusura, indipendentemente dall’esito. Anzi, eravamo certi che non avrebbero lasciato vincere Bobi Wine, non è mai stata una vera possibilità. Così abbiamo concluso le riprese e passato i successivi due anni al montaggio”.
Dal personale all’universale
La storia di Bobi Wine: The People’s President nasce da un’inclinazione del tutto personale, soggettiva e biografica, ma si trasforma in qualcosa di più. “Mio padre è nato in Uganda e io sono nato in Uganda” afferma il britannico Sharp. “Essendo cresciuto lì ero prima di tutto fan della musica di Bobi Wine e la prima volta l’ho incontrato proprio da ammiratore, in Europa, rimanendo estasiato dalla sua figura. Ho poi riflettuto a lungo, prima di chiedere a lui e alla moglie Barbie (Barbara Kyagulanyi, anche lei presente a Roma, ndr) di poter raccontare la loro storia, così nobile e speciale”.
La musica, per Bobi Wine, resta il principale strumento di comunicazione e diffusione del suo messaggio: “Solo con una canzone che ti entra in testa puoi far capire a tutti, anche ai soldati che ti sparano addosso, che la libertà di cui parliamo è anche la loro”, afferma Sharp a proposito della produzione musicale di Wine, che non si è mai interrotta. “Hanno provato di tutto, per riuscire a bloccarlo, persino per fargli dichiarare bancarotta. Hanno vietato le sue canzoni in radio e i suoi concerti. Ma la musica non si può fermare”.
E se la musica non si può fermare, da sola di certo non basta. Per questo, Sharp spera che il suo film, grazie anche all’attenzione dell’Academy, porti questa parte d’Africa “nel radar internazionale, per fare la differenza”. “Gli Stati Uniti soltanto danno all’Uganda un miliardo di dollari all’anno. E una cifra simile arriva anche dall’Europa”, aggiunge.
“Lo fanno perché vedono nell’Uganda un paese stabile e perché fa comodo pensare che sia una democrazia. Soprattutto perché fa quello che l’Occidente non è costretto a fare, come inviare 6 mila soldati all’anno in Somalia contro Al-Shabaab (il gruppo jihadista somalo, ndr). Le armi che vediamo nel film siamo noi a pagarle. Non dico sia necessario fermare gli aiuti, ma almeno farlo ad alcune condizioni. E riconoscere cosa accade davvero”.
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