Alla fine delle sue due ore e dieci, Kubi è una grande parabola del potere. La pellicola, passata al TorinoFilmFestival, è scritta, diretta, interpretata e montata da Takeshi Kitano, nonché tratta dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Kitano nel 2019. Il regista di Violent Cop e Achille e la tartaruga – sostanzialmente – se la canta e se la suona. E, nonostante una produzione di grande livello e portata, riesce con difficoltà a portare a casa il suo obiettivo.
Kubi è un’epopea drammatica tra samurai, ninja, clan in conflitto e daimio sanguinari. Una storia di guerra, che rappresenta attraverso una continua escalation la ridicola parabola della lotta di potere, anche se le sue vere intenzioni si manifestano dopo una partenza lenta e confusa, presentando i tanti personaggi con un ruolo all’interno della vicenda.
Un feudatario violento, che gioca con la vita dei suoi sottoposti come fossero marionette. E poi le cospirazioni per ucciderlo, che a loro volta vedono in risposta altre cospirazioni. Un domino pericoloso da gestire e che in diversi momenti si ingarbuglia su se tesso, per poi riprendere il filo del discorso con un umorismo caustico e sagace, ricordando la commedia di Armando Iannucci Morto Stalin se ne fa un altro, ma ambientata nel Giappone feudale.
Kubi, alle origini del male
La conquista di un potere, in Kubi, significa perderlo qualche istante dopo, con un capitombolo rovinoso dettato dalla bramosia dell’essere umano, anzi dell’uomo. Perché nonostante le grandi armature e gli abiti scintillanti, e gli altisonanti proclami dei generali protagonisti, Kitano li mostra per quello che sono. Bambini viziati che – purtroppo – hanno in mano il destino delle persone.
Non si può dire però che l’ultimo lavoro di Kitano abbia un tono sempre cupo, al contrario in moltissime sequenze il regista punta al grottesco, alla commedia cupa, ma anche alla storia d’amore, per gran parte del film ostacolata dal potere e dall’affermazione di virilità. E alla fine della fiera riesce nel suo intento, perché se all’inizio può sembrare un classico film di samurai, alla fine si dimostra essere una fotografia parecchio amara della crudeltà delle gerarchie, della lealtà e del sacrificio, con il richiamo a diversi elementi del cinema di Kitano.
E, a una lettura più profonda, affronta le origini del male, di quella Yakuza pervasiva e sempre all’agguato nella sua cinematografia.
Kubi è una visione piacevole, in fin dei conti, ma soffre di un grave – e serio – problema di ritmo, che poco dopo l’ora e trenta perde il mordente fino a quel momento guadagnato – per recuperarlo affannosamente nelle sequenze successive. E chiudendosi di colpo. Così, di botto.
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