Riproponiamo, in occasione dei 60 anni dal disastro, l’intervista a Iolanda Di Bonaventura sulla sua opera per la realtà virtuale Vajont (articolo pubblicato il 18 luglio 2023).
“Volevo indagare il legame tra identità personale e luogo di appartenenza”, afferma Iolanda Di Bonaventura, 30 anni, artista, regista e sceneggiatrice dell’opera per la realtà virtuale Vajont. Nel suo gioco, sviluppato dalla software house Artheria e ambientata durante il disastro del Vajont, voleva esplorare “il contrasto nei sentimenti delle persone, che si sentono rappresentate e legate a un territorio che può essere minaccioso”.
“Io sono nata a L’Aquila, sono una sopravvissuta al terremoto”, racconta Di Bonaventura a THR Roma. “Un avvenimento diverso da quello del Vajont, in cui la minaccia è stata costruita dall’uomo attraverso una diga, ma ho voluto comunque inserire la mia esperienza nel videogioco per raccontare quel disastro”. Il 9 ottobre del 1963, dopo una frana sui versanti del Monte Toc, è avvenuta la tracimazione della diga nella valle del Vajont (tra Friuli e Veneto), causando la morte di 1917 persone. Dopo diversi processi e investigazioni, si scoprì che la Sade, impresa che ha gestito la costruzione del bacino, ha occultato il rischio idrogeologico dei versanti, costruendo ugualmente la diga.
Di Bonaventura ora vive in Canada, è un’artista transmediale. Lavora con la realtà virtuale, ma anche con la fotografia, il teatro, la scrittura e le installazioni digitali. Ha capito di voler intraprendere quella strada guardando MTV, mentre in televisione passava la canzone Twenty Days dei Placebo. Vajont è l’opera che ha realizzato con Artheria (azienda fondata da Thomas Iuliano e Saverio Trapasso) durante la pandemia, con il sostegno della Biennale di Venezia e il fondo da 60mila euro di Biennale Cinema College – Virtual Reality.
Pubblicato ufficialmente nel 2022 prima su Oculus Store e poi su Steam, Vajont ha ricevuto recentemente tre candidature agli Italian Video Game Awards come miglior gioco, miglior debutto e miglior innovazione.
Rimanere? O andare via?
Di Bonaventura ha costruito l’esperienza virtuale del disastro “annunciato” del Vajont partendo dal suo vissuto personale, in quanto sopravvissuta al terremoto dell’Aquila nel 2009. “Ciò che è successo a me è esattamente quello che viene proposto all’interno dell’esperienza”, spiega a THR. “Prima della scossa devastante, ci sono state piccole scosse che sono andate avanti per mesi”, ricorda Di Bonaventura. “Quindi noi come abitanti avevamo iniziato a convivere con quel senso di precarietà – aggiunge l’artista – e lo avevamo definito come normalità eravamo stati tranquillizzati dalla protezione civile”.
“Quella sera, prima della scossa delle tre e mezza, ce n’è stata un’altra molto forte”, continua Di Bonaventura, cercando di raccogliere i pensieri, “sono passati tanti anni, non ricordo esattamente l’orario”. “È stata una scossa di avvertimento e io ricordo di aver avuto una conversazione con mio padre su cosa fare, se andare a dormire in macchina o rimanere in casa – aggiunge – avevo 16 anni”. “Questa è la medesima scelta che si fa anche dentro Vajont” – afferma Di Bonaventura – “cioè voglio rimanere in casa oppure voglio andare via?”
Come ci ha raccontato l’artista, lei e la sua famiglia hanno deciso di rimanere nella loro abitazione per la notte: “Paradossalmente l’idea di stare in casa ci faceva sentire riparati, o quantomeno era un modo di negare il pericolo che avvertivamo a livello inconscio”. “Chiaramente è stata la scelta sbagliata”, continua immediatamente Di Bonaventura, “perché poi la casa è caduta come tante altre case”.
Una domanda ha quindi continuato a suscitare l’interesse dell’artista abruzzese: “Che cosa ci ha impedito quella sera di fare un’azione così semplice come andare a dormire in macchina, al di là della scomodità?”
Da Tina Merlin a Martinelli, la storia del Vajont
Di Bonaventura si è messa quindi alla ricerca di un evento storico che le permettesse di investigare il rapporto tra identità e luogo di appartenenza, “mantenendo una certa lucidità”. “E la lucidità è stata appunto scegliere un fatto lontano (non troppo) nel tempo – aggiunge – un evento diverso e con una geografia differente, che mi permettesse più spazio di espressione senza sentirmi vincolata ad altro”.
L’autrice ha studiato il fatto storico, partendo con una lettura dei testi della giornalista de L’Unità Tina Merlin, soprannominata all’epoca come la “Cassandra del Vajont”, poiché ha dato voce alle preoccupazioni degli abitanti delle zone di Erto, Casso e Longarone prima del crollo della diga. Ma non solo. Come scritto su L’Espresso, Merlin – articolo dopo articolo – aveva denunciato la costruzione della Sade (l’azienda proprietaria della diga). Ma ciò non è servito.
“Sono stati molto importanti anche Il racconto del Vajont, il monologo teatrale scritto da Marco Paolini, e poi Vajont – la diga del disonore, il film diretto da Renzo Martinelli”, racconta Di Bonaventura. Quest’ultimo, l’artista abruzzese ha scelto di utilizzarlo “solo per capire la direzione verso cui non volevo andare, ovvero la spettacolarizzazione del disastro”. “Infatti – continua Di Bonaventura – nella nostra opera il disastro è solo menzionato come possibilità, ma mai mostrato allo spettatore”. E conclude: “È stata una precisa scelta artistica e filosofica, per non incentivare la ‘pornografia da tragedia’”.
La produzione di Vajont e la Biennale
Nonostante abbia avuto una produzione simile a quella di un videogioco, Vajont non nasce come tale. Il team di Artheria lo aveva pensato più come un’esperienza museale. “Avevamo intenzione di ricostruire completamente la stanza in cui si svolge la storia di Vajont“, spiega Iolanda Di Bonaventura. “La cucina, che è il cuore della vita familiare dei due personaggi, doveva essere ricreata, e il giocatore avrebbe indossato il visore camminando sia nello spazio reale che virtuale”. E aggiunge: “Si sarebbe seduto sulla sedia e avrebbe interagito con gli oggetti della stanza, che sarebbero stati lì, nella realtà”.
Ma la pandemia di Covid ha cambiato i piani. “Il diretto contatto con l’ambiente si traduceva in costi che il museo non poteva sostenere”. La produzione dell’esperienza è durata in totale sei mesi, racconta, di cui tre passati con l’idea di stare realizzando un’installazione videoartistica per i musei.
Cambio di rotta
Il team di Artheria era quindi pronto per presentare il progetto anche nei giorni della Biennale. Ma subito il gruppo riceve una comunicazione: la manifestazione di Venezia si sarebbe svolta solo online.
“Noi ci siamo trovati a metà della scrittura di un codice, e quindi a metà di un’usabilità già definita, a dover cambiare completamente il progetto in corsa”, spiega Di Bonaventura. All’edizione 2020 della Biennale, Artheria riesce a presentare un prototipo funzionante di altissima qualità, che però “aveva delle criticità” nel momento in cui doveva essere distribuito in un mercato di vendita (come si trovano a Venezia, Cannes, ecc., ndr).
“Abbiamo lavorato così perché queste sono le condizioni cui sei costretto a sottostare per sopravvivere in un mercato che non esiste – afferma Di Bonaventura – con pochi soldi e con la difficoltà di relazionarti con un mondo istituzionale vecchio”. “Un carico di lavoro infinito che abbiamo gestito a fatica, lavorando 20 ore al giorno come dei matti”, aggiunge.
La videoarte, la VR e L’Italia
Iolanda Di Bonaventura adesso sta cercando fondi per i suoi nuovi progetti. L’ultimo di questi, ci racconta, si chiama 0 (Albedo), è già stato selezionato per partecipare ad alcuni mercati (tra cui quello di Venezia).
In generale, racconta la regista, la videoarte e la realtà virtuale (VR) hanno un mercato molto particolare, poco riconosciuto in Italia. “La VR è stata creata e messa in mano agli artisti, che si sono diversificati”, ci racconta Di Bonaventura. “C’è chi ha scelto di fare videogiochi, chi invece realizza film a 360 gradi, esperienze interattive e tanto altro – continua – il medium non è ancora codificato e ognuno si attacca l’etichetta che meglio desidera”.
“Gli investitori che hanno creato la VR sono in una fase di raccolta dati e si sono resi conto che sicuramente nel mercato videoludico è quello che rende di più, ma che ad oggi non si è ancora imposto”, riflette. “Le nuove tecnologie funzionano sulla base delle tendenze, e la realtà virtuale era di tendenza tre anni fa, ora la nuova cosa è l’intelligenza artificiale”, afferma. “Noi non sappiamo se la realtà virtuale continuerà a esistere in futuro nel modo in cui la conosciamo oggi”.
I luoghi sensibili per la videoarte, continua l’artista abruzzese, “sono sicuramente il Canada, la Francia, l’Asia (sia Cina che Taiwan, in cui c’è un grande mercato), un pochino l’America e il Regno Unito”. Su una cosa è certa, l’Italia non sembra luogo fertile per la realtà virtuale al servizio dell’arte: “Noi non esistiamo proprio”. Una condizione che, nel momento in cui si è trovata a scegliere tra il rimanere a casa e prendere la macchina, ha scelto la seconda. In direzione Canada.
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