Il microcosmo di una classe per spiegare come possono rivoltarsi le dinamiche di potere in una società. Svolte politiche, alleanze, andamento e scrittura delle narrazioni delle figure coinvolte. Anche utilizzo dei media. È La sala professori, film diretto da İlker Çatak e scritto insieme a Johannes Duncker, la cui strada parte nel 2023 con l’anteprima alla 73esima edizione del festival di Berlino e arriva fino alla cinquina degli Oscar come miglior film internazionale.
Il più debole della rosa selezionata dall’Academy, forse assieme a La società della neve – a cui fanno compagnia Io capitano, La zona d’interesse e Perfect Days -, dove “debole” sta per il più canonico della lista. Ma proprio per questo suo valore rigoroso, semplice e didattico, quasi a riprendere il luogo in cui è ambientato, La sala professori dà una lezione applicabile a qualsiasi momento della storia e agli attori che ne prendono parte. Pedine su una tavola da gioco in cui muoversi come negli scacchi, dove la mossa di uno corrisponde all’attacco dell’avversario. Tutto dipendente dall’altro. Si è oppositori anche quando, entrambe le parti, voglio arrivare alla stessa verità.
Nel caso del film di Çatak i due estremi sono una maestra e un alunno. Dopo mesi di furti all’interno di una scuola, una giovane insegnante sceglie di accendere la telecamera del proprio computer per cercare di beccare il colpevole. Trovato il responsabile nella figura di una segretaria scolastica, madre di un suo studente, tra la protagonista e il bambino inizierà una sfida silenziosa per vedere a chi attribuire lo scettro della ragione. Anche applicando le astuzie più deprecabili.
Non tanto la maestra, autorità contro cui riversare le frustrazioni non solo di un unico bambino, ma di una classe di genitori, di insegnanti, addirittura di un’intera scuola, ma soprattutto da quella “vittima” che, per difendere il genitore, agirà con rabbia e violenza.
La sala professori: indignarsi prima di tutto
Una freddezza che nel film si articola nella minaccia di discredito che il ragazzino promette all’educatrice. L’esempio di come agire bene e agire in anticipo siano gli unici modi per portare il giudizio – in questo caso si potrebbe dire quasi “il popolo” – dalla propria parte. Manovrando i malcontenti, istigando alla provocazione. Anche con una buona dose di ribellione verso il sistema, che forse per una volta non sta opprimendo davvero gli indifesi, ma sta procedendo – almeno secondo il proprio sentire – per il bene di tutti.
Ricostruendo le dinamiche sociali di una classe come una scala piramidale dove sono le fondamenta che vanno ad intaccare le alte cime, La sala professori funge da paradigma per ogni tipo di sistema istituzionale. C’è chi, dall’alto, esercita un potere (la maestra che scopre il misfatto), che interviene per questo (forse anche sbagliando, in questo caso per aiutare) e che nel non saper gestire le conseguenze manda tutto in malora. La sua credibilità, a tratti la salute, e quella di chi, dall’altra parte, più in basso, si sente tradito e defraudato.
La sala professori è anche un film sul non voler accettare di poter credere a ciò che ci dicono. Né in chi vuole assisterci, né in chi abbiamo accanto, né nelle bugie – o meno – che vengono proclamate. È una pellicola sull’incertezza ed è con incertezza che chiude, senza un reale colpevole, lasciando una porta aperta – seppur una classe chiusa, la medesima da cui il ragazzino non vuole andarsene, esercitando un’altra azione di protesta.
E, per estremizzazioni, è un’opera su quanto sia facile manipolare la pancia delle persone (o, per dirla nel gergo comune, del paese). Che mostra quanto si è pronti ad abboccare all’amo delle ingiustizie non perdonando alcuna ingenuità. Senza fermarsi a ragionare, trovando sempre la maniera di indignarsi.
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